Schröder, Merkel e altri nomi da non omettere quando si parla di Russia e Ucraina

Vladimir Putin all’inaugurazione del suo ennesimo mandato da presidente russo con l’ex cancelliere tedesco Gerhard Schröder e l’allora primo ministro di Mosca Dmitrij Medvedev, 7 maggio 2018 (foto Ansa)

Sul sito di Tgcom si dice: «L’invasione dell’Ucraina assume proporzioni sempre più tragiche. Secondo il ministero dell’Interno ucraino, “oggi sarà il giorno più difficile”. E nella seconda giornata di combattimenti le sirene su Kiev hanno iniziato a risuonare di prima mattina e la gente è stata invitata ad andare nei rifugi antiaerei. Nella notte sono stati effettuati diversi lanci di missili sulla capitale ucraina: alcuni frammenti sono finiti su edifici provocando incendi e feriti. I russi sarebbero a una trentina di chilometri da Kiev. Per il presidente ucraino Zelensky le sanzioni decise dall’Occidente non sono sufficienti a fermare Putin».
Nel mattino del 25 febbraio questa è la situazione.

Su Formiche Emanuele Rossi scrive: «Le armi a distanza – bombe, missili a guida di precisione – sono scatenate contro le forze nemiche e le infrastrutture che sostengono la Difesa: basi militari, unità avanzate dispiegate, siti di protezione aerea, campi d’aviazione e porti, nodi di trasporto chiave, depositi di carburante, obiettivi di comando e controllo, centrali elettriche, anche le organizzazioni locali di informazione. “L’obiettivo è quello di costringere il governo nemico a capitolare rapidamente”, come spiega in un report la Rand Corporation. Si ha l’impressione di essere di fronte a una manovra che non prevede un’occupazione militare, che sarebbe difficile da sostenere da parte di eventuali truppe di occupazione russe. Non che ciò consoli molto, però forse qualche bagno di sangue potrebbe essere evitato».
Qualche altra considerazione su quel che sta succedendo.

Sulla Zuppa di Porro Stefano Magni scrive: «Una vittoria russa, dunque, è molto probabile, quasi scontata. Ma occorre vedere quanto la Russia sia poi in grado di vincere anche la pace. Gli ucraini hanno già dimostrato di non essere più quel popolo diviso che erano fino alla rivoluzione del Maidan del 2014, con una metà “russofila” e una “occidentale”. Già il voto uniforme, da est a ovest, per Zelensky, dimostra che la popolazione è più compatta. La prima reazione della Rada (parlamento) di Kiev è stata quella di mettere da parte tutte le divisioni, anche feroci, fra partiti e chiedere unità nazionale. Più ampio sarà il territorio che Putin deciderà di annettere, più difficile e costosa risulterà la sua occupazione, non solo in termini economici, ma anche umani».
Ancora tentativi di analisi su quel che sta avvenendo.

Su Dagospia si riportano le dichiarazioni di Boris Johnson alla Camera dei Comuni: «Il presidente russo Vladimir Putin è un “aggressore con le mani sporche di sangue che crede nella conquista imperiale” ed era da “sempre determinato ad attaccare il suo vicino, qualunque cosa facessimo”».
Il premier britannico non è uomo interessato alle sfumature, comunque mette ben in evidenza l’aspetto centrale della tragedia che stiamo vivendo.

Sulla Nuova bussola quotidiana Riccardo Cascioli scrive: «L’invasione di un paese sovrano è comunque un atto grave e una grave violazione del diritto internazionale, qualunque siano le motivazioni. In questo caso l’accerchiamento della Nato, la provocazione statunitense e l’atteggiamento contraddittorio dell’Unione Europea sono elementi che hanno certamente contribuito al passo di Putin, ma non lo giustificano. Accettare che una potenza si annetta un altro paese, o una frazione di paese, riconosciuto dalla comunità internazionale, apre a qualsiasi genere di sopruso e violazione. Che Kiev sia il cuore spirituale della Russia non legittima un’annessione o un’occupazione militare; altrimenti dovremmo dare luce verde alla Serbia per riprendersi il Kosovo, tanto per fare un esempio di un’altra situazione dove alta è la tensione al confine e dove il conflitto affonda le radici nella storia».
A Cascioli non sfugge la complessità della vicenda ucraina, ma questo non intacca la sua condanna di un grave atto contro il diritto internazionale.

Su Formiche Giampaolo Di Paola, già ministro della Difesa, dopo essere stato presidente del Comitato militare della Nato e capo di Stato maggiore della Difesa, dice: «Nei fatti si è ricreato un conflitto le cui dimensioni il continente non conosceva dalla Seconda Guerra mondiale. Questo crea, ovviamente, una spaccatura totale, e che durerà per un tempo prevedibilmente lungo, tra il mondo occidentale e la Russia. Per cui, adesso, qualunque iniziativa sul piano diplomatico è messa, chiaramente, in fase di stallo. E non sappiamo ancora per quanto tempo sarà così».
Non lo sappiamo.

Su Huffington Post Italia Angela Mauro scrive: «Ci sono sanzioni nel settore finanziario, trasporti, export, anche energia ma non sulle importazioni di gas o petrolio dalla Russia: l’Italia è tra i paesi che si sono opposti. C’è la sospensione dell’esenzione del visto per l’Europa per i diplomatici russi, il congelamento dei beni e il divieto di viaggio per altri individui coinvolti nell’invasione dell’Ucraina, come i membri del Consiglio di sicurezza russo».
Un quadro delle scelte occidentali per punire Mosca, la cui efficacia non sarà misurabile in giorni o settimane.

Su Dagospia si pubblica un articolo del Guardian tratto dalla rassegna stampa di Epr Comunicazione nel quale si scrive: «La Russia ha usato il denaro ricevuto dalle sue esportazioni di petrolio e di gas per costruire sostanziali difese finanziarie. Mosca è seduta su riserve di valuta estera di circa 500 miliardi di dollari (369 miliardi di sterline) e, per gli standard internazionali, ha livelli estremamente bassi di debito nazionale. Mentre la pandemia ha mandato il rapporto tra debito nazionale e Pil del Regno Unito a superare il 100 per cento, in Russia è inferiore al 20 per cento».
Ecco altre annotazioni di cui – comunque finisca l’invasione russa dell’Ucraina – converrà tenere d’occhio tutti gli esiti concreti. I tempi necessari per capirli saranno lunghi.

Su Startmag Giulio Sapelli dice: «Che il Nord Stream 2 potrebbe essere la condizione perché questa crisi finisca. Dovranno essere Francia e Germania ad avere la forza di trattare con la Russia di Putin e anche con gli Usa di Biden».
Pensare al dopo, quando la parola è alle armi, non è semplice. Ma è necessario.

Sulla Zuppa di Porro Michael Sfaradi scrive: «La debolezza dell’Occidente, e dell’attuale amministrazione Usa sta servendo su un piatto d’argento alla Cina quello che da sempre Pechino avrebbe voluto prendersi ma che non ha mai avuto il coraggio di pretendere. Considerando le attuali condizioni dopo la caduta di Kiev non scommetterei un euro sul futuro di Taiwan».
Il rischio che il mediatore tra Russia e schieramento atlantico, diventi la Cina (peraltro titolare di forti investimenti in Ucraina) è realistico.

Sul Post si scrive: «Nel 2014, quando migliaia di soldati russi in incognito invasero e occuparono la Crimea, l’Europa rispose con sanzioni economiche piuttosto dure, e ottenne di escludere il presidente russo dalle riunioni del G8. La linea di pensiero era sempre la stessa: prima o poi la forza di gravità delle misure prese avrebbe costretto Putin a tornare sui propri passi. Nel brevissimo termine l’Europa aveva evitato di innescare una guerra aperta. Intanto però non stava seguendo l’esempio della Russia, magari accelerando notevolmente la transizione verso le energie rinnovabili o cercando di diversificare i paesi da cui acquistare gas naturale. Anzi».
L’idea di sospendere storia, politica, geografia indefinitamente, sta dietro a un’Unione Europea e a Stati Uniti che in otto anni dall’annessione russa della Crimea non hanno preso un’iniziativa politica seria. Se (o quando) le armi taceranno, bisognerà pensarci su.

Su Atlantico quotidiano Federico Punzi scrive: «È vero che agli Stati Uniti, impegnati nel confronto con la Cina, è mancata determinazione nel far fronte alla minaccia russa che si stava materializzando sotto i loro occhi. Ma il destino di dipendenza da Mosca l’Europa se l’è costruito da sola, e oggi le agiografie di Angela Merkel possono tranquillamente andare a riempire i cassonetti della spazzatura».
Anche queste annotazioni saranno utili quando taceranno le armi. Intanto va notato come quella sorta di spazzatura che è la nostra stampa mainstream, tutta intenta a utilizzare la crisi per cercare di colpire i pur rozzi partiti di centrodestra italiani per i loro passati rapporti con Vladimir Putin, non nominano quasi mai Gerhard Schröder, ex cancelliere tedesco, presidente della Gazprom e ancora influente nella Spd, partito del cancelliere in carica Olaf Scholz. Né accennano al fatto che il blog del guru da cui dipendono i destini di Giuseppe Conte e Luigi Di Maio, dopo aver lodato i cinesi e condannato americani e ucraini, non pubblica alcuna riga sull’invasione russa.

Sugli Stati generali Massimiliano Di Pasquale scrive: «Uno dei primi studiosi a intuire l’importanza in ottica geopolitica dell’indipendenza ucraina fu Zbigniew Brzeziński, politologo statunitense di origine polacca che in un saggio del 1997, destinato a diventare celebre, intitolato The Grand Chessboard: American Primacy and Its Geostrategic Imperatives, sottolineava come l’Ucraina costituisse un fondamentale pivot geopolitico nello scacchiere euroasiatico perché la sua stessa esistenza come paese indipendente avrebbe contribuito a trasformare la Russia. A detta di Brzeziński, senza l’Ucraina la Russia cessava di essere un impero eurasiatico e avrebbe potuto lottare per lo status imperiale prevalentemente nell’area asiatica, con maggiori probabilità di essere coinvolta in conflitti con i paesi dell’Asia centrale. Tuttavia, se Mosca avesse ripreso il controllo sull’Ucraina – che all’epoca aveva una popolazione di 52 milioni di abitanti – con le sue risorse e il suo accesso al Mar Nero, la Russia avrebbe riacquistato automaticamente i mezzi per diventare un potente Stato imperiale che abbracciava Europa e Asia. Allo stesso tempo la perdita dell’indipendenza dell’Ucraina avrebbe avuto conseguenze immediate per l’Europa centrale, trasformando la Polonia nel perno geopolitico della frontiera orientale dell’Europa unita».
Ecco altro materiale da esaminare quando le armi taceranno.

Su Strisciarossa Paolo Soldini scrive: «L’accusa che viene rivolta in occidente a Putin di voler restaurare l’antico impero modificando i confini stabiliti in Europa dopo la caduta dell’Unione Sovietica ha qualche fondamento in relazione alla sua visione della storia, ma gli europei, gli americani e la Nato dovrebbero trarne conseguenze diverse da quelle che ne hanno tratto finora. La paura dell’accerchiamento e la propensione a cercare una certa sicurezza nei confini dell’Estero Vicino sono da sempre caratteristiche proprie dello spirito pubblico dei russi, quale che sia il regime in cui vivono. Aver accresciuto questi timori allargando a est la Nato quando ci sarebbero state, dopo l’unificazione tedesca e lo scioglimento del Patto di Varsavia, le condizioni per creare un sistema di sicurezza collettivo è stata una scelta che forse non è l’ultima delle cause che hanno portato al potere, e poi consolidato, il pericoloso nazionalismo del moderno zar del Cremlino».
Come sopra.

Su Dagospia il generale Marco Bertolini, già comandante del Comando operativo di Vertice interforze, dice: «Gli Stati Uniti non si sono limitati a vincere la Guerra fredda, ma hanno anche voluto umiliare la Russia prendendole tutto quello che in un certo senso rientrava nella sua area di influenza. Ha sopportato con i Paesi baltici, la Polonia, la Romania e la Bulgaria: di fronte all’Ucraina che le avrebbe tolto ogni possibilità di accedere al Mar Nero, ha reagito».
Parole molto semplificatrici dei problemi attuali, ma da valutare. Magari rileggendosi The Economic Consequences of the Peace, il libro scritto da John Maynard Keynes nel 1919, nel quale si enumerano gli errori compiuti innanzi tutto dai francesi verso la Germania nella conferenza di pace di Versailles dopo la Prima Guerra mondiale.

Exit mobile version