Sanremo, il troppo impegno civile stroppia. Ridateci le canzonette

Noi la pensiamo come Giovanni Guareschi. Alla terza sera, vorremmo portarcele a letto queste canzoni, «almeno il ritornello»

Due domandine da non addetti ai lavori ai nostri artisti impegnati a curare con bontà cinematografica l’impegno per le unioni civili: sapete quanta gente, finito Sanremo, quando tornerà a levarsi il sole tramontato dietro quella montagna di diritti salmodiati sul palco dell’Ariston, si ricorderà dei vostri ritornelli? E ancora, non è che a spegnersi, in questa assordante omologazione militare tutta candele votive e arcobaleni, sarà proprio la famosa “voce fuori dal coro” che dovreste incarnare in quanto artisti impegnati in battaglia?

Il dubbio sorge innanzi all’ennesimo nastrino impugnato con adesione impiegatizia al microfono: pare che su questo annodarsi di due fili colorati vada misurandosi oggi il grado di presentabilità di qualcuno che credevamo dovesse vivere «in fuga dai posti di blocco del conservatorismo, dall’omologazione, dall’ipocrisia. L’artista è l’unico che racconta le cose senza strumentalizzarle perché non ne ha bisogno», come diceva uno del campo, uno che si chiama Vasco Rossi. Uno che, per inciso, con la sua Vita Spericolata si classificò al penultimo posto del Festival del 1983, e chi oggi non l’ha mai cantata? E Gianna di Rino Gaetano (1978)? Donne di Zucchero (1985)? Un’avventura di Lucio Battisti (1969)? Piazza Grande di Lucio Dalla (1972)? Sono solo alcune delle canzoni che non hanno vinto Sanremo e ancora fanno gorgheggiare un paese, costellando il cielo senza arcobaleni della vera canzonetta all’italiana che «è quella che canta il manovale da muratore sull’impalcatura: è quella che canterello o fischietto io mentre mi faccio la barba o, seduto alla scrivania, cerco di costruire l’ossatura di un racconto», spiegava, guardando il XVI Festival di Sanremo, Giovanni Guareschi alla Giò, giovane collaboratrice familiare che con l’autorizzazione delle Acli Dio gli aveva inviato in casa “per ricordarci da un lato i doveri dei datori di lavoro e dall’altro i diritti dei prestatori d’opera”. «Certamente sbaglio ma, secondo me chi, in tre sere consecutive, ascolta per ben sei volte la stessa canzonetta dovrebbe essere in grado di portarsene a letto, la terza sera, almeno il ritornello».

Capita allora di chiedersi dove siano finiti i ritornelli in questo rincorrersi di artisti molto preoccuparti di non perdere l’appuntamento con la prossima moda e poco attenti a giocarsi la carta della differenza su un palco in cui tutti, ospiti compresi, assumono la stessa posa: quella dell’impegno civile. Ci chiediamo, raccolti i fruttarelli del piccolo spazio e tempo in cui sventola un nastrino arcobaleno, cosa accadrà fuori dalle maglie del sindacato protettivo del conformismo, ovvero sotto la doccia? Chi canterà “La borsa di una donna non si intona quasi mai/Con quel che sta vivendo” (Noemi), “È troppo presuntuosa la previsione di una verità” (Arisa), “Dimmi dove si nasconde/La promessa dignità/Questo cielo non risponde” (Fornaciari), “Nasce piccolo infinitamente/Poi diventa troppo importante” (Morgan e i Bluvertigo), “Figli di sogni segreti perduti nel vento/Innamorati di certi sapori/Magari nemmeno vissuti” (Ruggeri)? Vuoi mettere con “Donne du du du”? Forse, rubando una celebre battuta e al netto del pulviscolo sollevato dai piumini arcobaleno, anche quest’anno Sanremo resta una città della Liguria.

Foto Ansa

Exit mobile version