Anche per la sanità è l’ora della spending review. Ma attenzione: non basta tagliare per essere bravi chirurghi

Ridurre la spesa sanitaria? Sì grazie. Ma per mettere le mani su un malato occorre conoscerne le esatte misure. I casi di scuola dell’Inghilterra e del Massachusetts

Achille Lanzarini, autore di questo articolo, è coordinatore dell’U.O. Patrimonio della Fondazione Irccs Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano e collaboratore del Centro studi Sanità pubblica (Università di Milano Bicocca)

Ogni giorno i giornali ricordano che la spesa pubblica non è più sostenibile ed è necessaria la spending review, che teoricamente dovrebbe essere una rivisitazione della spesa, ma che praticamente è limitata al taglio dei costi. L’attuale governo italiano ha ribadito che la sanità non sarà colpita. In realtà, secondo l’Ocse, come in molti altri paesi europei i nostri governi hanno già provveduto a diminuire la spesa sanitaria negli ultimi anni. Stime preliminari suggeriscono che queste riduzioni della spesa sanitaria sono continuate a un tasso pari a -3 per cento in termini reali nel 2013. Infatti, anche le regioni più virtuose, a seguito dei tagli, faticano a chiudere in pari i bilanci della sanità e ci riescono solo riducendo le voci di spesa più rilevanti.

Nel 2012 in Italia la spesa sanitaria rappresentava il 9,2 per cento del Pil, una percentuale molto vicina alla media dei paesi Ocse (9,3), ma oggi non è più sostenibile: i costi cioè, alti o bassi che siano, sono maggiori delle entrate. Per continuare a fornire servizi adeguati in qualità e quantità, è urgente una strategia diversa dai tagli lineari e capace di garantire la sostenibilità economica delle prestazioni sanitarie, a cominciare dagli ospedali, il cui costo rappresenta il 50 per cento del totale della spesa pubblica sanitaria, stimata nel 2014 nella ragguardevole cifra di 111,5 miliardi di euro.

Negli anni passati il settore ospedaliero è stato oggetto di numerosi interventi volti alla riduzione dei posti letto con l’obiettivo di razionalizzare l’attività e di ridurre i costi di gestione. Il risultato è che sono diminuiti i ricoveri, ma non proporzionalmente la spesa, anzi. Come è stato possibile? L’Agenas (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali) ha pubblicato una corposa ricerca dal titolo L’attività ospedaliera: dati e riflessioni, i cui risultati sono indicativi. Ad esempio, dall’analisi dei bilanci degli ospedali si rileva come il costo medio per ricovero sia fortemente differenziato a seconda della struttura, e ciò indipendentemente dagli aspetti clinici o organizzativi: in sintesi, molti ospedali pubblici non sono efficienti. Ciò conferma, secondo Agenas, che spesso il costo degli ospedali pubblici non dipende dall’attività prodotta, ma da altri fattori, tra cui anche l’abitudine a considerare l’ospedale una specie di ammortizzatore sociale. Per quanto riguarda gli ospedali privati accreditati, la ricerca di Agenas sottolinea che mentre le inefficienze dei pubblici sono interamente a carico dello Stato, della collettività, i buchi degli ospedali privati ricadono esclusivamente sul gestore, sulla proprietà.

Paradossi del mercato
È un problema non solo italiano. Nel Massachusetts, ad esempio, si è riscontrata una forte differenza di costo tra diversi ospedali, pur per lo stesso tipo di prestazione. Come noto, il sistema sanitario americano è diverso dal nostro, poiché negli Stati Uniti i ricoveri sono pagati dalle assicurazioni che ne negoziano preliminarmente il costo con i diversi ospedali. Un imponente studio in merito pubblicato dallo stesso Stato del Massachusetts ha dato risultati sorprendenti: a fare la differenza non è né una diversa qualità della cura, né una maggiore complessità del servizio, né la tipologia di ospedale, né il comfort alberghiero. Fa la differenza la forza contrattuale dell’ospedale di imporre alle società di assicurazione un prezzo più elevato. E trattandosi per lo più di ospedali no profit, è chiaro che la motivazione non è la ricerca di un maggior profitto. Anche negli Stati Uniti, quindi, il costo della sanità non dipende dall’attività prodotta. Grossi gruppi ospedalieri americani, per cercare maggiore efficienza, hanno attuato una razionalizzazione degli ospedali chiudendo e accorpando diverse strutture. Tuttavia, studi apparsi sul Journal of Health Economics, su Economic Inquiry e altri ancora pubblicati dalla Robert Wood Johnson Foundation non hanno rilevato effetti soddisfacenti.

Più vicino alla nostra realtà europea è quanto accaduto tra il 1997 e il 2006 in Inghilterra, dove è stata attuata una radicale razionalizzazione ospedaliera, attraverso la chiusura di numerosi piccoli ospedali. Uno studio pubblicato dallo statunitense National Bureau of Economic Research (Nber) ne ha valutato gli esiti: drastica riduzione del personale ma nessun miglioramento della qualità clinica e, sorprendentemente, nemmeno della produttività, tanto che sono aumentate le liste d’attesa. La ricerca, eloquentemente intitolata “mania delle fusioni” (Mergermania), afferma che le operazioni di fusione su larga scala non funzionano, perché riducendo l’offerta ospedaliera riducono anche la concorrenza, che è alla base del miglioramento. Ciò è confermato da una più recente riforma ospedaliera sempre inglese (studi pubblicati dal Nber e dall’Economic Journal) che, perseguendo la realizzazione di un sistema competitivo, ha ottenuto non solo un aumento della qualità clinica, ma anche un miglior risultato gestionale degli ospedali.

L’importanza di saper valutare
In Italia, il decentramento regionale della sanità ha portato allo sviluppo di diversi modelli. Quello lombardo si è distinto, attraverso il perseguimento del principio di sussidiarietà, per l’accreditamento degli ospedali privati: ciò ha contribuito a migliorare il sistema regionale, poiché proprio allargando l’offerta si è potenziata per il cittadino la possibilità di scelta e dunque si è introdotto un sistema concorrenziale.

Ma la concorrenza è sufficiente a salvare i conti pubblici? Di più, la concorrenza non è rischiosa in un ambito delicato come la salute? Michael Porter, guru dell’economia mondiale, ha scritto sull’Harvard Business Review che ciò che manca è un appropriato sistema di misurazione dell’attività sia economica che clinica. Infatti, dove si sono resi disponibili dati accurati, è stato possibile identificare le aree di miglioramento, discuterne con i professionisti e, quindi, rendere più efficienti i processi organizzativi, valorizzando la clinica. Misurare significa dare trasparenza al sistema e indicare, numeri alla mano, chi è più bravo, chi è più efficiente, chi è più produttivo. Solo così la spending review sulla sanità non si tradurrà in un taglio lineare dei costi, ma nell’eliminazione degli sprechi. In sintesi, concorrenza e valutazione sono la medicina di certa autoreferenzialità, che in sanità può diventare patologia seria.

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