«La fatwa dell’Ucoii sul caso di Saman è sconcertante»

Intervista a Maryan Ismail, musulmana sufi e storica rappresentante della comunità somala in Italia: «In Italia non servono editti religiosi, ci sono le leggi. Le donne nell'islam sono considerate inferiori, lo Stato le protegga»

«La sconvolgente uccisione della povera Saman Abbas ci ha toccato profondamente. Siamo scese in piazza perché quello che si è scatenato attorno alla tragedia di questa povera ragazza ci ha lasciate sconcertate». Così Maryan Ismail, musulmana sufi, storica rappresentante della comunità somala italiana, spiega a tempi.it perché lunedì ha guidato a Milano un presidio organizzato da diverse associazioni di donne islamiche. Il padre e la madre della 18enne l’avevano promessa in sposa a un cugino in Pakistan, le nozze erano previste per il 22 dicembre ma la giovane si era opposta. L’obiettivo della manifestazione non era soltanto chiedere che «casi come quello di Saman, uccisa per aver rifiutato un matrimonio forzato, non si ripetano». Ma anche per denunciare l’improvvida e «pericolosa» fatwa emessa dall’Ucoii sul caso, insieme al comportamento ambiguo dei media italiani.

Ismail, l’omicidio di Saman da parte dei suoi familiari pakistani è dettato da cause religiose oppure culturali?
Ci sono entrambi gli elementi, che vanno di pari passo. Da un lato c’è la questione del disonore che le scelte della figlia avrebbero fatto ricadere sulla famiglia intera. Proprio in questi giorni sono state diffuse le dichiarazioni della madre di Saman.

Avrebbe detto: «E ora? Come faremo a spiegarlo in Pakistan? Questo è un disonore per tutti noi».
Esattamente. Il disonore è un elemento culturale, tradizionale, che però affonda le radici in una certa concezione dell’islam. Non possiamo certo nascondere il fatto che le donne nell’islam sono considerate inferiori rispetto ai maschi. Non è un caso se l’atto di matrimonio non lo firma la donna, ma un uomo della famiglia firma per lei, sia esso il padre o il fratello o lo zio. Siamo di fronte a una tradizione religiosa che va di pari passo con una culturale.

Nel commentare la tragedia, contrariamente ad altri casi, i giornali e i politici italiani sono stati molto cauti, facendo attenzione a non criticare l’islam o la cultura pakistana.
Purtroppo molte persone in Italia sono vittime del relativismo culturale e di una scarsa conoscenza del mondo musulmano. Ogni volta che c’entra l’islam, tutti si astengono dal criticare e dal giudicare, cercando giustificazioni. Ma la morale non deve entrare nelle aule di tribunale. Ciò che contano sono i fatti.

E i fatti cosa ci dicono?
Ci dicono che le ragazze musulmane si trovano in una condizione di inferiorità, soggette a una tradizione patriarcale legata al mondo islamico. Questo è innegabile. Le donne musulmane non hanno diritto alla stessa parte di eredità dei loro fratelli maschi, non possono fare determinate scelte, come quelle sul matrimonio, devono sottostare alla poligamia, non possono divorziare né sposare un uomo di un’altra religione. Le donne sono insomma cittadine di serie B a causa di una lettura patriarcale del Corano. E si arriva al punto, come appare nel caso di Saman, che le stesse madri diventano promotrici di una tradizione maschilista deviata.

Non denunciando con forza casi come quello di Saman, giornali e politici, soprattutto di sinistra, promuovono una società dove le donne musulmane hanno meno diritti delle coetanee di altre religioni?
È un paradosso, ma è così. Nello stesso Pakistan ci sono leggi che vietano i matrimoni forzati, non si capisce perché questa condizione non debba essere tutelata in Italia. Questo è l’unico paese in Europa dove certe cose sono permesse o comunque vengono lette con una visione di permissivismo per non criticare l’islam. Così si tolgono diritti e certezze alle ragazze, consapevoli che in Italia nessuno le aiuta.

Il 3 giugno l’Ucoii, Unione delle comunità islamiche d’Italia, ha emesso una fatwa contro i matrimoni forzati che sarebbero «in pieno contrasto con la dottrina islamica». Che cosa ne pensa?
Sono rimasta, e non solo io, sconcertata e sorpresa. Non è mai successo prima d’ora che venisse emessa una fatwa in Italia, allargata anche al tema delle mutilazioni genitali femminili, per un delitto così efferato. Se non sono pratiche islamiche, come affermano, non si capisce la ratio della fatwa, è una contraddizione in termini. L’intervento solleva poi altri problemi.

Quali?
A che nome è stata emessa questa fatwa? Non è stata richiesta dalla famiglia di Saman, che tra l’altro è sciita mentre l’Ucoii è sunnita, né dalle comunità islamiche. Non sanno, inoltre, che in Italia ci sono già delle leggi a tutela delle bambine e che vige lo stato di diritto? Dalla fatwa si evince che esista un mondo parallelo. Pensano che esistano due Stati diversi? Vogliono creare uno Stato nello Stato? È preoccupante.

Non è però positivo che si siano espressi contro una simile pratica?
Avrebbero potuto redigere un comunicato stampa o una dichiarazione, come ha fatto la Grande moschea di Roma, che ricordo è l’unica realtà islamica riconosciuta dallo Stato italiano come ente morale. La fatwa è un giudizio religioso, un’indicazione vincolante per quanto riguarda la fede delle persone. Nei paesi musulmani vengono fatte solo se richiesto, spesso dai giudici, per aiutarli a prendere una decisione. Ma questo accade perché nei paesi musulmani l’islam è religione di Stato. Non mi risulta che l’Italia, paese laico, riconosca alcuna religione come religione di Stato.

Allora qual era l’intento dell’Ucoii, secondo lei?
È chiaro, ergersi a rappresentanti della comunità islamica italiana. Ma l’islam è diverso dal cristianesimo, non è una religione verticistica. Inoltre il patto firmato con lo Stato dalle diverse comunità riconosce la differenza di culture, oltre alla differenza tra sunniti e sciiti. L’Ucoii ha cercato di porsi come responsabile morale e religiosa delle comunità islamica italiana integrale. Ma il mondo musulmano è variegato e diviso: ecco perché è preoccupante e irritante. Dobbiamo poi dirci un’altra verità.

Quale?
Dov’era l’Ucoii dopo l’uccisione di Hina Saleem o quella di Sanaa Dafani o di Sana Cheema o di Jamila? Nel caso di Hina io ero davanti al Tribunale di Brescia e ho visto come la comunità pakistana proteggeva la madre e il padre della ragazza. Non ho visto autorità religiose intervenire, per quanto sollecitate a farlo. Ci sono forse imam che si esprimono contro i matrimoni poligamici effettuati nelle moschee o sul diritto delle donne di non indossare il velo? Questa è la doppia faccia dell’islam.

E perché allora sono intervenuti proprio nel caso di Saman?
Perché i media ne hanno parlato a lungo e loro volevano dimostrare di essere moderni e rispettosi delle leggi. Volevano finire sui giornali ed è sconfortante vedere i media che gli hanno dato credito in modo acritico.

Che cosa può fare l’Italia per aiutare le donne musulmane?
Lo Stato deve dialogare con le associazioni femminili musulmane, e non solo quelle velate, per stilare delle linee guida affinché gli operatori (assistenti sociali, forze dell’ordine, medici, consultori) sappiano come intervenire nei casi critici. Com’è possibile, ad esempio, che dopo la denuncia della famiglia e l’accoglienza in un centro, Saman sia stata fatta tornare a casa, come sembra, per riprendere i suoi documenti? È saltato completamente tutto ciò che normalmente il codice rosso prevede in casi di violenza domestica. Certi errori non possono essere più commessi.

@LeoneGrotti

Foto Ansa

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