Roma, la città dove nessuno vuole vincere

La balcanizzazione del centrodestra rischia di consegnare la Capitale all’inconsistenza del Pd e al basso profilo del M5S. Un ballottaggio da prova generale del referendum d’autunno

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Il punto, a tre mesi dal voto, è che il Campidoglio dista solo poche centinaia di metri da palazzo Chigi. Una prossimità non solo geografica ma stavolta tutta politica destinata a complicare ulteriormente la risoluzione delle tante emergenze della Città Eterna. Che significa? Che le elezioni amministrative del giugno prossimo rappresentano l’ultimo step prima dello scontro finale sul quale Matteo Renzi per primo ha fissato il destino del proprio governo: il referendum costituzionale. La conquista di Roma sta proprio nel mezzo del cammin e per questo è diventata croce e delizia dei partiti in questo match di scacchi che sembra il gioco ufficiale della nascente Terza Repubblica. Vincere qui può significare l’avviso di sfratto da parte delle opposizioni per l’ex rottamatore o un segnale di tenuta elettorale di Renzi da rilanciare in pompa magna in vista della consultazione referendaria.

In mezzo c’è Roma però, e un dato: gli ultimi due mandati, targati Alemanno e Marino, hanno dimostrato che governare la Capitale è diventata, al netto delle responsabilità politiche e amministrative dei due sindaci, una mission impossible. I motivi? Il debito monstre, Mafia Capitale, il caos trasporti, il degrado diffuso, il profilo giuridico stesso di Roma (per nulla paragonabile, in negativo, alle altre capitali, deficitaria com’è di un federalismo municipale), le mille consorterie che hanno ingolfato la macchina pubblica. Per Roma – al punto di dissesto a cui è arrivata, di fronte a una mega inchiesta che ha squarciato il velo sulla fitta trama di vincoli feudali a cui la politica stessa è subordinata e con i nodi della sicurezza, della viabilità e della manutenzione che rimangono la spada di Damocle pronta a decollare chiunque provi a intestarsi la risoluzione – c’è chi ha invocato non a caso la prosecuzione della cura prefettizia targata Paolo Francesco Tronca, commissario incaricato dopo l’implosione della giunta Marino, che da parte sua ha abbozzato un’operazione di scoperchiamento della mala gestione del patrimonio pubblico (risultato è stata l’ennesima puntata di Affittopoli).

Ma il suo “modello Expo”, quello che avrebbe dovuto iniettare un po’ dell’efficientismo mitteleuropeo di Milano nel ventre molle di Roma, si è inceppato più volte (dal caos sull’avviso del blocco delle auto a quello sull’ordinanza per la legalizzazione dei mercatini rom); e, vuoi anche a causa della mancata “emergenza” del Giubileo (manifestazione che, dopo le minacce dell’Is, non ha richiamato le centinaia di migliaia di fedeli previsti), la tentazione renziana di appaltare ad interim a tecnici e commissari la Capitale – per lenire i dolori del crollo dell’auto-rottamazione della giunta di centrosinistra – si è dovuta arrendere alla fisiologica scadenza della parentesi. In mezzo al cammin, insomma, c’è la missione impossibile, ma necessaria, chiamata Roma che porta con sé un interrogativo ulteriore: i partiti sono attrezzati o no per questa “sfida Capitale”?

Il Pd vuol governare (davvero?)
La domanda, forse, va posta meglio: chi vuole vincere “davvero” a Roma? Abbiamo detto Matteo Renzi, certo: l’onda lunga di un eventuale successo Pd nella Capitale arriverebbe a infrangere le resistenze dei “gufi” al referendum di ottobre e a spianare così la strada al renzismo riformatore verso le elezioni politiche. In mezzo, purtroppo per lui, oltre agli avversari – i nemici a sinistra (Stefano Fassina e Ignazio Marino) – c’è parte importante del Pd romano, non proprio renziano (qui il blocco ex Ds conta eccome) e non proprio intenzionato a tirare la volata al premier (a meno che alle primarie del 6 marzo la minoranza Pd dovesse spuntarla con Roberto Morassut). Per vincere nella Capitale, e far dimenticare l’esperienza del “marziano” Ignazio Marino, Renzi da parte sua punta su Roberto Giachetti, romano e romanista, già radicale ma soprattutto esponente di formazione rutelliana (è stato uno dei Rutelli boys al Campidoglio come capo di Gabinetto dal ’93 al 2001): uno che, nel bene e nel male, sa cosa significa fare il sindaco.

Per vincere, però, sarà necessario convincere i romani a partecipare alle primarie Pd: il rischio di un flop (dopo la delusione degli elettori per i cinque anni di governo della città, le polemiche intestine al Pd capitolino investito dalle inchieste e dopo una “battaglia” mai esplosa tra gli sfidanti nelle primarie) è dietro l’angolo. Oltre a ciò occorrerà vedere cosa farà parte della minoranza Pd qualora le primarie dovessero sancire l’indicazione di Giachetti e a sinistra dovesse emergere una candidatura alternativa accettabile: la tentazione di alcuni settori di azzoppare Renzi nella corsa per Roma è sempre dietro l’angolo. Insomma, le idiosincrasie che coinvolgono il partito nazionale potrebbero fare tappa, e danni, così nella sfida di Roma.

La paura…
Veniamo adesso a chi, in fondo, ha timore di vincere a Roma. Qui è necessario un inciso. È chiaro come sia lontana ormai la stagione triumphans dei sindaci, la parabola declinata qui da Francesco Rutelli e conclusasi con gli ultimi scampoli di Walter Veltroni, dove tra accumulazione di debito, spesa libera per gli interventi e un sistema Paese in crescita, erano esperienze del genere che si facevano trampolino per una carriera: consumatasi in fretta quella stagione, però, è emerso quello «sfascio amministrativo», denunciato sul Corriere della Sera da Ernesto Galli Della Loggia, che rende la città vulnerabile da anni alla «galassia di centri d’influenza e di coalizioni d’interessi». Uno sfascio che si è ingigantito se è vero che solo per le partecipate del Comune (Atac, Acea e Ama) nel 2014 è valso 3,8 miliardi di euro di debiti: e il salvataggio di queste società da parte del Campidoglio è costato dei gettiti extra sottratti ad altre voci di bilancio tra cui, ovviamente, quelle destinate al sociale. Fare il sindaco di Roma nelle condizioni attuali (con il patto di stabilità e gli ulteriori tagli enti locali) e nell’era del corto circuito dei nuovi media, che costringono a una risposta e a un referendum in tempo reale su qualsiasi avvenimento, è diventato oggettivamente un rischio. Tant’è che per più di qualcuno il governo della Capitale sembra la trappola perfetta per azzoppare la corsa del “vincitore”, oggi, per il governo del paese domani.

… e il complotto
Timore candidamente ammesso da Paola Taverna, romana del MoVimento 5 Stelle, il primo partito a Roma secondo tutti i sondaggi: c’è un complotto «per farci vincere, Governo e Regione non ci daranno soldi così da farci fare brutta figura», ha spiegato con la prosa tipica che dà corpo alle paranoie grilline. Il fondo di verità non sta, certamente, nel complotto in sé ventilato dalla deputata ma tra i dubbi che assalgono coloro i quali – fino a poche settimana fa – sembravano i vincitori designati per Roma: i 5 Stelle appunto. «I favoriti hanno tutto da perdere», si dice. Tra la tenaglia che potrebbe stritolarli una volta al Campidoglio (con Governo e Regione Lazio in mano al Pd) e la prova difficilissima di rimettere in piedi una Capitale in ginocchio, in casa 5 Stelle si teme il trappolone. «Vincere a Roma può essere la tomba a livello nazionale – sostengono gli analisti –, si sono resi conto da un lato di non essere pronti a una sfida di tale entità, dall’altro di essere esposti e impallinabili». Dopo la vicenda di Quarto poi, dove hanno chiesto le dimissioni a un loro sindaco non indagato per una questione mediatico-giudiziaria, il precedente è stato creato: da questo momento in poi qualunque pm avviasse un’indagine potrebbe fare a brandelli l’intero Movimento.

È chiaro come una cosa del genere su Roma potrebbe avere un effetto esiziale per tutto il M5S. Per tutte queste ragioni è sceso in campo direttamente il guru Gianroberto Casaleggio: prima con l’introduzione della “penale” di 150 mila euro che vincola gli eletti al programma, poi con un vero e proprio commissariamento della carica dato che, come ha spiegato il direttorio, il sindaco grillino sarà «solo un terminale» affiancato a sua volta da un mini-direttorio ad hoc. Al resto ci ha pensato la rigida applicazione del “non-Statuto” (che indica l’impossibilità di candidare chi già ricopre una carica) “salvando” i pentastellati di fatto dalla vittoria, data per certa dai sondaggi, di Alessandro Di Battista a Roma. Con Virginia Raggi, la migliore candidata di “seconda fascia” che avevano, vincitrice delle Comunarie, il MoVimento, quindi, potrebbe accettare anche una sorta di sconfitta vittoriosa a Roma (ossia arrivare a un pelo dalla vittoria) restando in scia del sentimento antipolitico e preservando così la prova del nove direttamente per la sfida di palazzo Chigi. Anche se le divisioni nel centrodestra potrebbero stravolgere i piani e contribuire a mettere un 5 Stelle (la Raggi ha un profilo moderato) di fronte alla responsabilità di guidare Roma.

Eppure il candidato c’era
E pensare che un candidato che da tempo sta facendo di tutto per vincere a Roma c’è. È Alfio Marchini, l’esponente civico fluttuante (tradizione di famiglia di sinistra, il nonno donò Botteghe Oscure al Pci) che sembra adesso tendere – dopo essersi opposto prima alla giunta Alemanno poi a quella Marino – e aspirare a coalizzare intorno a sé il centrodestra romano (in città ha già conquistato il sostegno di Ncd e di spezzoni del centrodestra civico). Il problema è che due terzi della coalizione – ossia Silvio Berlusconi ma soprattutto Giorgia Meloni – non hanno intenzione di intraprendere una joint venture con l’imprenditore considerato organico al centrosinistra ed espressione di poteri che confliggono con la narrazione della destra romana. Fratelli d’Italia e Fi hanno preferito investire su Guido Bertolaso, l’uomo delle emergenze chiamato per l’emergenza di trovare un candidato per il centrodestra.

Emergenza che è diventata crisi nel momento in cui Matteo Salvini non è passato sopra su alcune gaffe di Bertolaso sul tema scottante dei rom («comunità vessata» secondo l’ex capo della Protezione Civile) e ha convocato le sue primarie a Roma per valutare le altre candidature emerse in questa affannosa ricerca di un’investitura per il Campidoglio. Senza considerare, poi, che a destra s’avanza anche Francesco Storace, con un pacchetto di consenso identitario per nulla marginale in città. Il responso di queste consultazioni ai gazebo leghisti? Un sostanziale testa a testa tra Marchini appunto, Irene Pivetti, Storace e Bertolaso (con Giorgia Meloni prima tra le indicazioni libere dei votanti). Davanti al disastro della Giunta Marino il vantaggio acquisito (nei sondaggi il centrodestra unito è dato oltre il 30 per cento a Roma) rischierebbe dunque di liquefarsi davanti a tre-quattro candidature che si contendono la medesima fetta: balcanizzazione che, a una lettura in controluce, testimonia anche come questa “dialettica” serrata sia una tappa del derby che è iniziato per la leadership nazionale dell’opposizione di destra a Renzi. Tutto ciò potrebbe costare il ballottaggio al centrodestra e consegnare la sfida al secondo turno alla contesa tra Pd e Movimento 5 Stelle. A meno che, come extrema ratio, Giorgia Meloni (nonostante la gravidanza che le ha consigliato in un primo momento di passare la mano, lei che rappresenta il partito più forte e radicato nella Capitale) dovesse accettare di correre per Roma e di chiudere così una fase che da anni, dopo la bocciatura traumatica dell’esperienza di centrodestra in Campidoglio, ha gettato un’intera area nella confusione.

Gli stop & go del centrodestra – componente che storicamente su Roma ha sempre avuto idee guida – l’inconsistenza del “PdR”, del partito di Renzi a Roma, i dubbi autocastranti del M5S uniti, è il caso di dirlo, a una desertificazione generalizzata di classe dirigente cittadina testimoniano come gli «anticorpi» di cui Raffaele Cantone parlava, a proposito della ricetta per risollevare la Capitale dal punto di vista amministrativo come è avvenuto a Milano con l’Expo, ancora non sembrano essersi formati. E quella “corta distanza” tra Campidoglio e palazzo Chigi, con le scadenze di cui abbiamo parlato, rimane una distrazione troppo forte.

@rapisardant

Foto Ansa

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