Ritorno a Portofranco e al fatto serio dell’educazione

Dopo aver tenuto testa al virus con device e lezioni online la formidabile opera di aiuto allo studio riapre in presenza. «Non abbandoneremo i ragazzi in camera»

Foto Portofranco

Cominciamo dal video di Tirsha e Tissi a Portofranco, «la nostra seconda casa». Del resto, a voler fare gli onori di casa se mai qualcuno non la conoscesse, lo stesso fondatore di Portofranco, don Giorgio Pontiggia, vent’anni fa aveva cominciato da lì: «Mi sembra che i giovani di oggi non siano presi sul serio. Tutto quello che infatti si fa per i giovani di oggi, spendendo miliardi, è aiutarli nel tempo libero, nei loro passatempi – tuonava il braccio d’acciaio dell’educazione di don Luigi Giussani -. Questa constatazione mi ha fatto pensare che il vero aiuto che si deve a una persona non è ampliare il suo divertimento, ma condividere il bisogno che vive. […] Che cosa esprimono questi ragazzi? Una difficoltà nello studio, nella frequenza a scuola. Quindi, cominciamo da lì».

Subito “lì” era diventato un posto preciso – viale Papiniano, centro di Milano, vecchie aule dismesse della scuola Galileo Ferraris –, un centro di aiuto allo studio che in fretta diventò un’associazione di 40 centri sparsi in tutta Italia, dove 300 docenti volontari erogano 15 mila ore di lezione ogni anno a 1.500 ragazzi delle medie superiori, 300 dei quali stranieri. Il tutto gratuitamente, tradotto, per i fanatici dei numeri, 500 mila euro risparmiati dalle famiglie. Serviva l’occhio profetico di un formidabile Pontiggia, e un gruppo di insegnanti capaci di mettersi al seguito di una fresca e potente proposta educativa nella Milano ingozzata di assistenzialismo perché trionfasse un’opera sussidiaria chiamata da Tirsha e Tissi, così come da migliaia di ragazzini, “seconda casa”. Ecco perché, fatte le debite presentazioni, è da lì che bisogna cominciare.

IL RITORNO DI RAWAN, TOMMASO, SANDRO

Dalle scale salite dai due ex studenti di Portofranco lo scorso fine ottobre per fare due domande ai reduci del lockdown. Da Rawan che ha due occhi verdi così e non vedeva l’ora di tornare e da Rahma, da Tommaso, Mario, Sandro, e tutti gli altri studenti e volontari che sono rientrati in presenza dopo mesi di “Portofranco online”, non più facce, fogli, pacche sulla spalla, ma lezioni online, documenti condivisi e pc. C’è chi descrive il lockdown come bello, faticoso, tremendo, interessante, ma tutti parlano del rientro come del ritorno a casa, in un posto sicuro, bello, “qui miglioro”, “sono contento”. Parole semplici. Noi adulti siamo abili nelle parafrasi, nella logica, nelle formule, nelle risposte immediate e corrette. Ma affidare la fede nella gratuità di un’opera, di una caritativa, al confronto con la realtà, con Rawan, Rahma e Tommaso, significa innanzitutto giudicarla.

«Abbiamo chiuso il 2020 con 500 ragazzi in meno e 500 sono quelli rientrati a settembre, appena si è potuto riprendere l’aiuto allo studio in presenza. Ora li richiameremo tutti, uno per uno». Un anno fa, nel giro di una settimana insieme alla sua “squadra” Alberto Bonfanti, presidente dell’Associazione Portofranco Milano, aveva già attivato la piattaforma per le lezioni a distanza, le ore di studio individuale in modalità online. Poi la riapertura a settembre, la nuova chiusura a novembre, e ora, dall’11 gennaio, Portofranco è di nuovo aperto con duplice modalità: proseguono le lezioni online ma anche e soprattutto in classe. «I primi a tornare sono stati gli studenti stranieri e chi viveva una situazione di maggiore difficoltà». Immaginate chi non studia, o a smesso di studiare, chi non ha stima di sé o è dislessico, discalculico, ha una insegnante di sostegno, disturbi dell’apprendimento, va male, non può permettersi le ripetizioni, non ha un metodo di studio, non ha un buon rapporto con gli insegnanti, non sa se ha scelto la scuola giusta: immaginate questi ragazzi alle prese con la Dad e capirete i numeri di Portofranco, quelli di chi resta aggrappato al suo banco, al suo tutor, anche al suo collegamento online, ma anche quelli di chi in camera ha smesso di aggrapparsi a tutto, «mi preoccupa l’autoisolamento di chi paradossalmente ha vissuto la didattica a distanza in situazioni più comode o agiate in casa propria e non avverte più il bisogno di uscire, e, va da sé, di crescere in un’amicizia che investe anche lo studio. Noi abbiamo fatto tutto quello che potevamo per mettere i ragazzi nelle migliori condizioni possibili: grazie al progetto Building Hope finanziato da Usaid, in collaborazione con Fondazione Avsi, abbiamo potuto regalare 150 tablet a chi non aveva nulla per collegarsi. Ma abbiamo una responsabilità verso chi ci è stato affidato che va oltre la dotazione tecnologica».

I CAZZOTTI CON L’ATTESA, LA CASA APERTA

Cominciamo da lì: non dall’erogazione di un servizio ma dalla condivisione di un bisogno. Il tablet, sì. Ma anche i corsi maturandi aperti in presenza a 150 persone ora registrano una media di 900-1.000 collegamenti da tutta Italia per ascoltare Davide Prosperi parlare di scienza o Giorgio Vittadini parlare di economia. I volontari riprendono continuamente in mano il libretto su Il senso della caritativa di don Giussani. Certo, non è proprio come andare in Bassa: prima quasi non si stava dietro alle richieste dei ragazzini, oggi c’è chi ha tempo di ripassare un intero programma scolastico per aiutare chi li cerca. Gli adulti fanno a cazzotti con l’attesa: «Una nostra amica ci ha ricordato che “permettere ai ragazzi di cercarci anche se non ci cercano è comunque un essere in rapporto con loro. Dirgli: ci siamo anche se tu non hai bisogno di me, ma io ci sono e ci sono per te”. Questo significa che dobbiamo continuare a tenere aperta questa casa. In sicurezza, certo, ma aperta». E ancora, cominciare da lì: perché la dad ha moltiplicato la domanda di aiuto ma anche la difficoltà di chiedere aiuto. «Sappiamo che il 30 per cento degli studenti italiani non si sono collegati in questi mesi, da docente di storia e filosofia in un liceo milanese e insegnante da 35 anni devo confrontarmi con i danni e i vuoti lasciati dalle scuole chiuse, dalle lacune in ogni classe. Quando il ministro Azzolina ha annunciato il “promossi tutti”, lo studio è andato al tappeto, i ragazzi hanno iniziato le vacanze. Molte famiglie ci hanno chiesto aiuto, qualcuno si è organizzato, in sicurezza, per consentire lo studio a casa del volontario: è passato un anno dall’arrivo del Covid, fare i conti con la paura “sanitaria” o quella di affrontare un rapporto non può esimerci dal proporlo. Dal chiamare i ragazzi uno a uno, anche se non ci cercano, per ricordare loro che la casa è aperta».

I FRATELLI CHE PIANGONO, I PANNI STESI E UN MARE DI “PERCHÉ”

La dad non è solo device o solo ragazzini in gamba puntuali a lezione, è anche una ragazzina dello Sri Lanka che chiede aiuto perché «se l’anno scorso vedevo una speranza, quest’anno sto perdendo tutto», che dice che la mamma le lascia i fratellini tutto il giorno, che ha insufficienze gravi e si vergogna di intervenire durante le lezioni con i compagni. La dad sono anche ragazzini che si alzano alle 8 meno cinque e dopo sei ore di lezione al pc si abbandonano sul divano, che si vergognano di collegarsi da un corridoio, dalla cucina, di non poter zittire il fratello che piange durante un’interrogazione, di non avere magari nemmeno una camera o una porta della camera da sprangare, ragazzini che si vergognano di mostrare l’affollamento di letti e panni stesi alle loro spalle. E che volentieri abbandonano per finire a Portofranco, chiedere il perché di tutto, perché sono fatto male, perché sono fatto storto, perché non finisce il virus, perché sei qui con me, e trovare qualcosa che la scuola non riesce a proporre loro: ragazzini che Portofranco riesce a raggiungere e acciuffare quando non riesce a farlo nessuna piattaforma e professore. Attraverso un solo strumento: «Un rapporto personale e gratuito. Che sfida anche la Dad. E ci aiuta anche a fare meglio il nostro mestiere che come recita la massima di Plutarco non considera i ragazzi “vasi da riempire, ma fuochi da accendere”. Altrimenti la difficoltà diventa una tomba».

A Milano sono aumentati i volontari, anche questo è un segno: la paura di un male genera rancore, braccia conserte, remi in barca, il mistero del male invece carità, anzi caritativa. Potrebbe bastarci sapere che ci sono tante buone persone che si prendono a cuore altrettanti ragazzini in difficoltà. Oppure potrebbe portarci a centrare la questione educativa, ricordarci che la dispersione scolastica si combatte con un luogo, un rapporto, così come la paura di un virus. Ricominciare da lì, da un posto preciso che Tirsha e Tissi chiamano «seconda casa», dove vent’anni fa l’educazione si è fatta corpo a corpo, scale, fogli, tu per tu, dove la distanza, all’apparenza siderale, di situazioni e condizioni non è mai stata un destino, ma operosa e presente condivisione di un bisogno. È allora che un giovane non viene solo preso a cuore ma viene preso sul serio.

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