I ricatti del dolore e l’immortalità del Risorto

Attaccata da tutti in Spagna per avere fatto ricorso (in America) alla maternità surrogata alla veneranda età di 68 anni, Ana Obregon, attrice e presentatrice televisiva, si è giustificata con la più inattaccabile delle scusanti contemporanee: il dolore. Nel suo caso, il dolore per la perdita, tre anni fa, del suo unico figlio, stroncato da un cancro. La bambina nata pochi giorni fa porterà via un po’ di quella sofferenza, come la luce porta via l’oscurità.

Un ricatto morale

È una costante implacabile: tutti coloro che oggi vogliono vedere i loro desideri trasformati in diritti, esibiscono la loro sofferenza come l’argomento decisivo che dovrebbe convincere la società ad esaudire le loro richieste. Normalmente non si limitano a fare appello alla pietà del prossimo, ma passano al ricatto morale: chi non approva le loro richieste è crudele, insensibile, nemico della libertà, ecc. Un influencer e conduttore televisivo diffonde un filmato dove piange a dirotto perché in Italia non gli è permesso di avere un bambino con l’ipotetico compagno col quale potrebbe un giorno maturare tale progetto genitoriale; un transessuale americano impazzisce per il dolore di non vedere riconosciuta la sua identità di genere dalla scuola cristiana di cui è stato allievo, vi torna armato e fa una strage di bambini prima di essere abbattuto dalle forze dell’ordine; una youtuber francese di 23 anni afflitta da un disturbo dissociativo annuncia di avere prenotato l’eutanasia in Belgio perché la Francia, crudele, non glielo permette; sul Guardian la famosa commentatrice Polly Toynbee scrive: «Oggi, diciassette persone probabilmente moriranno nel dolore. La morte assistita sarebbe un cambiamento positivo in Gran Bretagna».

In nome del dolore che provano per le particolari condizioni esistenziali in cui si trovano, alcuni chiedono che sia legalizzata la prostituzione, altri che sia legalizzata la droga, altri ancora che siano rimosse dalle università e dalle librerie i testi che offendono la loro sensibilità identitaria, che siano censurate opere teatrali e film.

La società senza dolore

Chi dissente dalle richieste di tutti i suddetti ricorre o all’argomento giuridico-morale che tali richieste compromettono diritti altrui ovvero la struttura della società, o all’argomento filosofico-spirituale che la solitudine e il patimento non spariranno con l’esaudimento dei desideri in questione, oppure spariranno insieme al bene più prezioso, la vita stessa (suicidio assistito). Quasi nessuno replica ai dolenti dicendo loro quella che dovrebbe essere una cosa ovvia, anche se suona dura: che il dolore fa parte della vita, che senza dolore non si cresce, che dove il dolore scompare completamente scompare anche l’uomo come tale, trasformato in macchina o in zombie; che lasciar parlare il dolore, a propria volta raccontarlo e condividerlo in una narrazione che gli riconosce un significato, è più sensato che cercare di metterlo a tacere, di eliminarlo costi quel che costi.

Questa ovvietà non viene in mente quasi a nessuno per il semplice motivo che in una società dove la realtà e la vita non hanno più senso (nichilismo), nemmeno il dolore può averne. Di conseguenza il dolore diventa insopportabile come mai prima nella storia, e la fuga disordinata dal dolore divenuto insopportabile produce le mutazioni antropologiche configurate nei “nuovi diritti”; mutazioni che caratterizzano la “società palliativa” o dell’”anestesia permanente”, come la chiama Byung-Chul Han nel suo libro La società senza dolore – Perché abbiamo bandito il dolore dalle nostre vite. I punti di riferimento del pensatore tedesco-coreano non sono cristologici, non è alla funzione salvifica del dolore nell’accezione cristiana che fa riferimento la sua riflessione. La sua impostazione è immanentista, i filosofi che cita più volentieri sono Hegel, Nietzsche, Heidegger. Eppure si tratta di un autore capace di scrivere: «Il dolore è lo strappo attraverso il quale fa breccia il completamente Altro».

Felicità infranta

Parte della critica che Byung-Chul Han rivolge alla società «senza dolore» è politico-sociale: l’eliminazione del dolore dalla vita umana per via analgesica è funzionale alla società della prestazione neoliberista, dove tutti devono essere efficienti per essere felici; è funzionale alla conservazione degli assetti di potere, perché cercare di risolvere il proprio dolore per via psicologica o con soluzioni private anziché vedere in esso un sintomo dell’ingiustizia sociale, non metterà in discussione i rapporti di dominio.

Ma la parte più importante del discorso è prettamente filosofica e metafisica, laddove spiega che la felicità «si sottrae alla logica dell’ottimizzazione: è caratterizzata dall’indisponibilità. La vera felicità è possibile solo se infranta. È proprio il dolore a salvaguardare la felicità dalla reificazione. Il dolore regge la felicità. La felicità dolorosa non è un ossimoro. (…) Se il dolore viene soffocato, ecco che la felicità si appiattisce riducendosi ad un apatico torpore. La profonda felicità resta inaccessibile a chi non è aperto al dolore».

Né amato né vissuto

Il dolore ci avverte che la felicità è indisponibile, e che l’alterità dell’Altro si sottrae alla nostra volontà di dominio. Ci avverte anche della positività del reale e della nostra dipendenza da esso.

Ha scritto il fisiologo Viktor von Weizsäcker a proposito del dolore fisico che ci fa percepire la realtà degli organi del nostro corpo: «Che io abbia tutti questi organi posso evidentemente pervenire a notarlo anche altrimenti, ma soltanto il dolore mi insegna a comprendere quanto essi mi siano cari; e questa legge del dolore determina in egual maniera l’importanza per me del mondo e delle cose che lo compongono».

Infine il dolore ha una funzione veritativa, svela la verità nella forma della ferita o della perdita di ciò che ci era caro: «Là dove le separazioni fanno male, i vincoli andati perduti si rivelano veri. Solo le verità fanno male. Tutto ciò che è vero è doloroso», scrive Han. «Il dolore può apparire solo là dove è minacciata una reale appartenenza. Senza dolore quindi siamo ciechi, incapaci di riconoscere la verità e i fatti. Senza dolore non abbiamo né amato né vissuto. La vita viene sacrificata in nome della sopravvivenza confortevole. Solo una relazione vissuta, un’effettiva coesistenza ha accesso al dolore. La coesistenza meramente funzionale, senza vita, non porta ad alcun dolore anche quando decade. È il dolore a distinguere la coesistenza viva dalla prossimità morta».

L’immortalità del non morto

Le dinamiche di civiltà – la cosa è sotto i nostri occhi – vanno in tutt’altra direzione: recependo il grido di tutti i dolenti del mondo che vogliono trasformare in diritti i propri desideri, i transumanisti promettono un mondo senza dolore e senza morte, reso possibile dalla tecnologia. Scrive il transumanista David Pearce nel suo manifesto L’imperativo edonistico: «Grossomodo nel giro dei prossimi mille anni, il substrato biologico della sofferenza verrà del tutto sradicato. Sia il dolore “fisico”, sia quello “mentale” sono destinati a sciogliersi nella storia evolutiva», così come le pene d’amore, cioè le «crudeltà demoralizzanti tipiche dei modi tradizionali dell’amore».

La felicità sarà «sublime e onnipervasiva». Ammonisce Byung-Chul Han: «La vita priva di dolore e munita di costante felicità non sarà più una vita umana. La vita che perseguita e scaccia la propria negatività elimina se stessa. (…) Chi vuole sconfiggere ogni dolore dovrà anche abolire la morte. Ma una vita senza morte né dolore non è umana, bensì non morta. L’essere umano si fa fuori per sopravvivere. Potrà forse raggiungere l’immortalità, ma al prezzo della vita».

Un dialogo con l’immanentista Byung-Chul Han permetterebbe di dirgli che ha perfettamente ragione nel definire l’immortalità transumanista ottenuta per via tecnologica come una “non morte”, e dunque a presentire degli zombie nei futuri postumani immortali. La vera immortalità non risulta dall’evitamento della morte, ma dal passarci attraverso. Non è l’immortalità del non morto, ma quella del Risorto.

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