Che cosa insegna all’Italia il voto estremamente ragionevole dei lombardi

Con un sistema elettorale che mette di più al centro le singole persone, gli elettori hanno scelto non chi li rappresenta meglio, ma chi secondo loro potrebbe governare meglio. Perché non fare così anche a livello nazionale?

Elettori leghisti festeggiano sotto al Pirellone la rielezione di Attilio Fontana (foto Ansa)

Sulla reazione di Carlo Calenda alle elezioni in Lombardia, ha già detto quel che c’era da dire Emanuele Boffi. Calenda ha usato l’aggettivo “ideologico” per qualificare il voto lombardo. È forse l’aggettivo più sbagliato. Mai come oggi mancano non solo le ideologie ma qualsiasi cosa assomigli a un sistema di idee minimamente organizzato. Destra e sinistra si trascinano, quando va bene, in battaglie “culturali”, che hanno a che fare per definizione con cose che dovrebbero stare ben al di fuori del perimetro della politica.

Se c’è stato un tempo nel quale, con Formigoni in Regione e Albertini sindaco di Milano, la Lombardia era un laboratorio di riforme “liberali”, per inciso le uniche che il centrodestra abbia fatto in Italia, quel tempo è finito da un pezzo. La stessa sanità lombarda, nata con un’ispirazione sussidiaria e competitiva, ha subìto una mutazione radicale con la giunta Maroni. C’è da augurarsi che Attilio Fontana, nel suo secondo mandato, riesca a ripristinarne lo spirito. In campagna elettorale però pochi hanno sfiorato questioni di principio.

Più che “ideologico”, un voto “identitario”

Forse il voto più “ideologico” è quello che si esprime a favore di Iv/Azione, che più di altri prova a inserirsi in una cornice di idee. Calenda più che ideologico voleva dire “identitario” ed effettivamente c’è una identità dei lombardi che trova più immediata rappresentazione a destra che a sinistra: anche perché la sinistra lombarda, condannata all’opposizione, finisce a crogiolarsi nel radicalismo. L’identità in politica spesso produce un’irragionevolezza diffusa: quella che abbiamo visto esplodere, per esempio, nelle elezioni del 2018.

Ma il voto lombardo è stato l’esatto contrario: gli elettori sono stati, ammettiamolo, estremamente ragionevoli. Hanno capito che, siccome la competizione era a turno unico, votare per candidati che non avevano chance di vincere significa disperdere il voto. Questo li ha portati a convergere su quella che a loro sembrava forse non l’opzione migliore, ma la meno peggiore. Ciò significa che hanno scelto non pensando a chi meglio rappresentava le loro opinioni o le loro idiosincrasie, ma avendo ben chiaro che quella persona avrebbe dovuto governare la loro regione.

I meriti del sistema elettorale delle regionali

Dare un’interpretazione dell’astensionismo è materia da aruspici. Certamente il non voto segnala disaffezione per la politica. Nel caso di un’elezione il cui esito è dato da tutti per scontato, però, i non votanti sono in una certa misura persone cui tutto sommato quell’esito sta bene: ovvero non sta male al punto da provare a scongiurarlo. Negli anni Novanta, in Italia pensavamo che cambiare il sistema elettorale bastasse per cambiare la politica. Esageravamo. Adesso però esageriamo nell’altro verso, non riconoscendo che le regole del gioco influenzano la partita.

L’elezione a turno unico del Presidente di Regione canalizza l’attenzione sul candidato alla carica più rilevante e nel contempo scatena la corsa alle preferenze, all’interno dei partiti che corrono con un sistema proporzionale. Fra i diversi meccanismi elettorali oggi in vigore in Italia, è quello che più mette sotto i riflettori le singole persone. Il che non necessariamente significa che i votanti premieranno il “merito” individuale ovvero la preminenza nella rispettiva professione o il rilievo mediatico (la bocciatura del tele-esperto Fabrizio Pregliasco la dice lunga) ma coloro che ritengono meglio possano intercettare le loro esigenze, all’interno dell’amministrazione.

La “competenza” non è un programma di governo, così come non lo è l’onestà: si tratta di due requisiti auspicabili ma che non esauriscono la dimensione della politica. È tutto il contrario di un voto “ideologico”, nel bene come nel male (le esigenze di alcuni gruppi di elettori si traducono in richieste molto concrete).

Ragionare su una riforma di tipo presidenziale

La riflessione che andrebbe fatta è se questo sistema non abbia meriti da trasferire anche a livello nazionale. La politica è e sarà sempre più “personalizzata”: non è il carattere degli italiani a determinarlo, non è lo stato liquido in cui versano i partiti, ma Instagram. I nostalgici della Prima repubblica sognano che il proporzionale, oggi, ridarebbe loro le forze politiche “solide” della propria gioventù. È un’illusione.

Gli elettori scelgono fra le offerte disponibili e in base alla domanda che il sistema elettorale pone loro. Se i governi si fanno in Parlamento e il sistema elettorale è proporzionale, la domanda è: “Da chi ti senti rappresentato?”. È un quesito che sorregge il voto malmostoso, i bastiancontrario senza agenda, i demagoghi che non si pongono il problema di cosa fare dopo e come. Se invece l’indicazione di “chi deve comandare” è esplicita, l’elettore pensa non a chi sa interpretarne i sentimenti, ma a chi pensa possa effettivamente assumere una responsabilità di governo.

Questa è la questione che gli avversari del populismo dovrebbero avere a cuore. Anche se significa ragionare su una riforma di tipo presidenziale, che piace alla destra, e anche se riduce lo spazio dei partitini, inclusi quelli a loro più cari.

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