Comunque vada a finire nelle urne con i referendum ammessi dalla Corte Costituzionale sulla giustizia, sono destinati a lasciare il segno. Sempre che il governo o il Parlamento, mossi da una ritrovata vitalità normativa, non varino un’ulteriore riforma che ne svuoti i quesiti per come sono stati proposti.
«La vedo difficile più per la volontà politica che per i tempi – dice a Tempi Michele Vietti, ex vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura – la maggioranza è molto divisa sulle questioni della giustizia quindi pensare che si riesca a trovare una soluzione preventiva ai nodi che i referendum si propongono di risolvere mi sembra molto complicato».
«I referendum sono una sorta di spallata che l’opinione pubblica dà di fronte all’inerzia del Parlamento e del Governo – spiega Vietti – Questa è una materia che sarebbe stato necessario affrontare anni e anni fa ma è stata sempre rinviata». Non è bastato lo “scandalo Palamara” a spingere la politica ad affrontare di petto la situazione: superata la stagione dell’indignazione e dei best-seller tutto è rimasto come prima. «Anche il governo è rimasto completamente inerte fino al richiamo del Presidente della Repubblica e anche dopo non ha prodotto chissà quale intervento risolutore».
«Rimane insoluto il tema del ruolo del pm, la grande anomalia di questi anni, con uno squilibrio rispetto al giudice e all’avvocato – continua Vietti – Abbiamo fatto del pm il titolare del potere assoluto di esercizio dell’azione penale, il capo di tutte le polizie giudiziarie, il gestore delle intercettazioni e quindi del più potente mezzo di prova oggi utilizzabile nel processo».
La separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri è uno dei quesiti proposti dai referendum e ammessi dalla Corte: il fenomeno dei cosiddetti cambi di casacca verrebbe a essere fortemente ridimensionato andando a evidenziare un ambito in cui la riforma Cartabia non interviene in modo così risoluto come forse ci si sarebbe aspettati. «Nella riforma pm e giudici rimangono con lo stesso concorso, la stessa carriera, la stessa appartenenza associativa, lo stesso organo di governo – continua l’ex vicepresidente del Csm – È vero che si riduce a una volta sola la possibilità di cambiare funzione, ma qui il problema è il modo di esercitare quella funzione che richiede una revisione totale».
L’aspetto paradossale riguarda la disciplina delle toghe: il giudice disciplinare viene eletto dai colleghi che andrà a giudicare e la rinnovata garanzia dovrebbe essere rappresentata dall’inserimento degli avvocati nei consigli giudiziari, qualora il Consiglio dell’Ordine abbia segnalato comportamenti ritenuti scorretti da parte del magistrato che si è chiamati a valutare. «Non c’è un intervento risolutivo sulle progressioni in carriera – chiosa Vietti – oltre il 99 per cento delle valutazioni di professionalità del Consiglio è positiva. Neanche tra le schiere dei cherubini credo si riscontri una percentuale simile, perché anche lì c’era Lucifero che abbassava la media».
Né la riforma Cartabia né i referendum toccano poi alcuni dei problemi centrali della giustizia, come la struttura stessa del Consiglio Superiore della Magistratura, ricordando che in altri paesi come la Francia i pm dipendono in via gerarchica dal governo. «Il consiglio ha una durata troppo breve per un organo che deve rodarsi e, soprattutto, non lo si può far decadere tutto insieme: chi è che sarà attrezzato a entrare subito nel meccanismo? – si interroga Vietti – Chi è organico alla corrente che gli fa da Virgilio nell’aldilà. Chi come i laici non ha riferimenti correntizi ci mette almeno un anno ad orientarsi». Intanto, conclude Vietti, «cominciamo a separare le carriere, poi al limite si faranno due sezioni del Consiglio Superiore per giudici e pm».