Cercare la verità, fuggire il relativismo. Il lascito di Benedetto XVI ai cattolici in politica

Non sono in nessun modo all’altezza di commentare la figura di Benedetto XVI come stanno facendo in questo momento intellettuali e teologi, ma mi sento in dovere di consigliare ai cattolici e alle persone di buona volontà impegnate in politica e nelle istituzioni la lettura di quella raccolta di testi del papa emerito pubblicata nel 2018 (Cantagalli) che va sotto il titolo di Liberare la libertà – Fede e politica nel Terzo Millennio. Lì viene spiegato con grande sapienza perché non si possa accettare una convivenza civile fondata sul relativismo, come vorrebbero i laicisti, ma si debba ricercare la verità e su di quella fondare la politica, compresa quella democratica.

Oggi si dice che chi fa entrare la verità in politica vuole imporre la propria morale agli altri, vuole istituire una teocrazia, come nel Medio Evo, o come fanno oggi i cosiddetti fondamentalisti islamici. Perciò la politica, la democrazia, lo Stato dovrebbero basarsi sul relativismo, sull’idea che bisogna fare in modo che tutti possano seguire la loro personale verità. In concreto, quando ci sono differenze di opinione importanti, le decisioni vanno prese a maggioranza: l’unico criterio della politica è la maggioranza: diventa diritto, diventa legge, diventa verità, in un certo senso, quello che la maggioranza decide.

Libertà, ragione, verità morale

Benedetto-Ratzinger critica questo modo di impostare la politica, osservando anzitutto che la decisione della maggioranza non fa diventare vero ciò che è falso, e non fa diventare giusto quello che è sbagliato. La maggioranza può sbagliarsi, e di fatto si è sbagliata tante volte. Ratzinger fa l’esempio del referendum indetto da Ponzio Pilato: volete libero Gesù o Barabba? Non si può dire che la maggioranza abbia scelto saggiamente. Poi allude all’ascesa del nazismo al potere nella sua Germania: Hitler andò al potere con regolari elezioni, che vinse con una maggioranza del 43,9 per cento. La democrazia ha bisogno di un nucleo non relativistico, perché altrimenti col solo principio della maggioranza si legittima anche l’ingiustizia. Ci deve essere un limite alle decisioni che può prendere la maggioranza, così come ci deve essere un limite alla libertà del singolo individuo: «… la libertà individuale… ha bisogno di criteri e di limiti, altrimenti diventa violenza contro le altre libertà». Questi limiti, questi criteri, sono i diritti dell’uomo. Diritti che esprimono la giustizia, il bene, la verità morale. E siamo daccapo: come può l’uomo, in un mondo religiosamente, filosoficamente, politicamente pluralista, di cristiani e non cristiani, di credenti e non credenti, individuare verità che tutti devono accettare?

La Chiesa, da sempre, ha dato una risposta: l’uomo, che sia cristiano o che non lo sia, è in grado di cogliere con la ragione la verità morale universale attraverso la sua coscienza, perché la coscienza è il luogo dove Dio gli parla. È il luogo dove Dio parla ad ogni uomo. Per esempio nella Gaudium et Spes, una delle grandi costituzioni del Concilio Vaticano II, leggiamo:

«Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire. Questa voce, che lo chiama sempre ad amare, a fare il bene e a fuggire il male, al momento opportuno risuona nell’intimità del cuore: fa’ questo, evita quest’altro. L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedirle è la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà giudicato. (…) Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità numerosi problemi morali, che sorgono tanto nella vita privata quanto in quella sociale».

La pace chiede il rispetto della vita umana

Nel libro in questione Ratzinger a proposito della coscienza e del fatto che ogni uomo ha la possibilità di riconoscere la verità morale anche senza essere cristiano non cita mai la Gaudium et Spes, ma ribadisce il suo contenuto attraverso una citazione dalla seconda Lettera ai Romani: «Quando i pagani, che non hanno la legge, per natura agiscono secondo la legge, essi, pur non avendo legge, sono legge a se stessi; essi dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori come risulta dalla testimonianza della loro coscienza». E commenta:

«Paolo esprime l’esperienza che aveva fatto in prima persona come missionario tra i pagani e che già prima Israele dovette sperimentare nel rapporto con i cosiddetti “timorati di Dio”. Israele aveva potuto far esperienza nel mondo pagano di ciò che gli annunciatori di Gesù Cristo trovarono nuovamente confermato: la loro predicazione rispondeva ad una attesa. Essa veniva incontro a un antecedente conoscenza fondamentale circa gli elementi costanti ed essenziali della volontà di Dio, che furono espressi per iscritto nei comandamenti, ma che è possibile ritrovare in tutte le culture (…)».

Nell’ultimo messaggio per la Giornata della Pace di Benedetto XVI, quello del 2013 che fa parte dei testi selezionati nel libro, scrive che la pace richiede il rispetto della vita umana dal concepimento sino alla sua fine naturale. E questo suppone fra le altre cose che l’aborto e l’eutanasia non vengano liberalizzati. E aggiunge:

«Questi princìpi non sono verità di fede, né sono solo una derivazione del diritto alla libertà religiosa. Essi sono inscritti nella natura umana stessa, riconoscibili con la ragione, e quindi sono comuni a tutta l’umanità. L’azione della Chiesa nel promuoverli non ha dunque carattere confessionale, ma è rivolta a tutte le persone, prescindendo dalla loro affiliazione religiosa. Tale azione è tanto più necessaria quanto più questi princìpi vengono negati o mal compresi, perché ciò costituisce un’offesa contro la verità della persona umana, una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace».

Buona fede e coscienza erronea

Un’altra via attraverso la quale si nega che la politica debba conformarsi alla verità morale è quella che giustifica ogni decisione dei politici in nome della buona fede e di un’idea erronea dell’”agire secondo coscienza”. Ratzinger non crede al valore della buona fede: «C’è nell’uomo la presenza del tutto inevitabile della verità – di una verità del Creatore, la quale poi è stata anche messa per iscritto nella rivelazione della storia della salvezza. L’uomo può vedere la verità di Dio a motivo del suo essere creaturale. Non vederla è peccato. Essa non viene vista solo quando e perché non si vuole vederla. Tale rifiuto della volontà, che impedisce la conoscenza, è colpevole». Per Ratzinger la coscienza erronea è quasi sempre colpevole. Può la coscienza sbagliare? Sì, può sbagliare. La coscienza erronea è giustificata? Se io agisco in buona fede, e faccio qualcosa di moralmente sbagliato, sono giustificato perché ho agito secondo coscienza, perché ho agito in buona fede? No, dice Ratzinger, perché è colpa mia se la mia coscienza è istruita male. Non sono innocente del fatto che la mia coscienza non è rettamente formata.

Il papa emerito insiste su questo punto a motivo delle discussioni che ebbe quando era un giovane teologo, e discuteva coi professori e con gli altri studenti sul tema della coscienza erronea. Alcuni sostenevano che la coscienza erronea era quasi una Grazia che Dio faceva a certi uomini, perché questi si salvavano senza fare la fatica di obbedire alla Verità, che non conoscevano, ma semplicemente per la loro buona fede. Scrive l’allora cardinale Ratzinger:

«Qualcuno obiettò a questa tesi che, se ciò dovesse avere un valore universale, allora persino i membri delle SS naziste sarebbero giustificati e dovremmo cercarli in paradiso. Essi infatti portarono a compimento le loro atrocità con fanatica convinzione ed anche con un’assoluta certezza di coscienza. Al che un altro rispose con la massima naturalezza che le cose stavano proprio così: non c’è proprio nessun dubbio che Hitler ed i suoi complici, che erano profondamente convinti della loro causa, non avrebbero potuto agire diversamente e quindi, per quanto siano oggettivamente spaventose le loro azioni, essi, a livello soggettivo, si comportarono moralmente bene (…) e non si potrebbe mettere pertanto in dubbio la loro salvezza eterna. Dopo una tale conversazione fui assolutamente sicuro che c’era qualcosa che non quadrava in questa teoria sul potere giustificativo della coscienza soggettiva».

Quel che non quadra, è la deresponsabilizzazione del soggetto. Io sono responsabile del fatto che la mia coscienza è diventata erronea. Scrive Ratzinger:

«Non è mai una colpa seguire le convinzioni che ci si è formate, anzi uno deve seguirle. Ma non di meno può essere una colpa che uno sia arrivato a formarsi convinzioni tanto sbagliate (…). La colpa quindi si trova altrove, più in profondità: non nell’atto del momento, non nel presente giudizio della coscienza, ma in quella trascuratezza verso il mio stesso essere, che mi ha reso sordo alla voce della verità e ai suoi suggerimenti interiori».

Avvenimento, tradizione, comunità: Chiesa

Naturalmente Benedetto non è così ingenuo da pensare che la coscienza, la capacità del soggetto di distinguere il bene dal male, si attivino spontaneamente, per la sola forza della razionalità che è nell’uomo. Perché le evidenze morali diventino evidenti, o restino evidenti, c’è bisogno di qualcosa che formi la coscienza e che metta in azione la coscienza. E che cos’è questo qualcosa? È un avvenimento, è una tradizione, è una comunità, è una Chiesa, è un’educazione familiare, è un fatto storico. Qualunque fatto storico che tocchi la profondità del cuore umano. Ratzinger lo dice sia a proposito della Chiesa che a proposito di altre realtà culturali e religiose:

«La ragione metafisica e la ragione morale “funzionano” e si attestano presenti soltanto dentro un contesto storico: ne dipendono, e nel contempo però lo travalicano. Di fatto, tutti gli stati hanno attinto le evidenze morali razionali dalle tradizioni religiose ad essi preesistenti».

E ancora più chiaramente:

«Quanto sostiene in radice ed essenzialmente lo Stato, lo Stato lo riceve da “fuori” di sé: non da una “pura ragione”, che in ambito morale non è sufficiente, bensì da una ragione che è divenuta matura in forme storiche di cristallizzazione culturale della fede religiosa».

La coscienza di ogni uomo è in grado di distinguere il bene dal male, il relativismo non è l’ultima parola, e il fattore religioso, culturale, familiare proprio di ogni persona è decisivo nell’aiutarla a operare questa distinzione. Anche fra i non cristiani. Non è indispensabile essere cristiani per riconoscere e fare il bene. Ma è indispensabile che nella nostra vita accadano dei fatti storici che educano, maturano, mettono in azione la nostra coscienza in modo retto anziché in modo erroneo. Ce n’è abbastanza per incoraggiare i cristiani a prendersi le loro responsabilità nella politica, senza cedimenti all’idea che le leggi devono riconoscere il “pluralismo etico” presente nella società; e insieme a portare avanti in ogni ambito di presenza, dalla scuola al posto di lavoro, la proposta cristiana, così che la coscienza dei non cristiani come quella dei cristiani sia sensibilizzata a riconoscere la verità morale.

Foto Ansa

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