Quelle corse in ambulanza da volontaria, tra la paura della morte e gli scherzi di noi ragazzi

La sirena proviene dalle nostre spalle. Lacera l’aria, e noi tutti, in auto, accostiamo in fretta. Ecco l’ambulanza che passa a stento, e si allontana veloce, urlando il suo lamento. Resto a guardarla, presa dalla nostalgia. Da ragazza, sulle ambulanze ho fatto la volontaria. Croce Verde Baggio: la sede era in fondo a via Forze Armate, tra le case popolari, d’inverno sempre dentro a un pozzo di nebbia – la nebbia che c’era, una volta, a Milano.

A inizio turno si parcheggiava in “colonnina”, cioè in una piazzola con un telefono collegato al 118. La nebbia con la notte si faceva più fitta; le strade, negli anni di piombo, semideserte. Ma noi dell’equipaggio avevamo vent’anni. Scherzavamo fra noi, e ci bevevamo un caffè a un dopolavoro dell’Atm: dove i vecchi giocavano a carte, e il fumo si tagliava a fette.

Una chiamata dalla centrale. Se era urgente l’autista accendeva la sirena, che era diversa da adesso, più acuta; e si partiva di corsa, traversando con il rosso, spaccando con quel grido stridente il silenzio della periferia. (Quel correre, lo confesso, mi piaceva; sentivo il cuore che mi saliva in gola).

Spesso, era un incidente. A volte l’uomo sul selciato era già inerte. Lo guardavo con sbalordimento: un attimo, mi dicevo, e tutto è già finito. E quante volte siamo andati nei casermoni di Baggio, chiamati da un vecchio che aveva in faccia il livido pallore di un infarto. E allora si correva all’ospedale, ed era bello vedere i portelloni del pronto soccorso, avvertito, spalancarsi – come ad accogliere quello sconosciuto.

Una sera d’estate riportammo a casa dall’ospedale una vecchia in fin di vita; il marito la teneva per mano e le diceva: «Cara, siamo a casa». A me sembrava già morta. Entrammo con la barella in una piccola dignitosa casa sul Naviglio. Faceva molto caldo, era agosto; la città, attorno, deserta. Il ronzio di una mosca imprigionata in cucina era l’unico rumore. La vecchia faccia irrigidita della donna, e il marito che ancora teneramente le parlava. A vent’anni quella sera ho intuito, per un istante, come dev’essere, restare soli a ottant’anni.

Ma più ancora delle corse nella notte, e dei morti, di quei giorni mi restano gli occhi della gente nelle case, e il sollievo grato, perché eravamo arrivati. Mi ricordo gli stabili, quei falansteri di cemento già corrotto, con le scale e gli ascensori disastrati; e però dentro, oltre ogni porta, una tavola apparecchiata, delle foto in cornice, il giocattolo di un bambino, e, sul muro, Padre Pio. Mi ricordo la verità e la paura nelle facce degli uomini, quando temono che l’ora sia arrivata.

E noi volontari, ragazzi, commossi, zitti. Dal pronto soccorso si ripartiva, infine, a sirena spenta. Un altro caffè. Se proprio ci voleva, un bianchino. Ma poi come in fretta, in quelle sere, quasi spinti da un segreto istinto, noi si tornava a parlare di amori, di musica, di calcio, e a scherzare. Quanto in fretta la vita si riappropriava di noi; come acqua liberata, quando si alzi la paratia della diga che innaturalmente la ha imbrigliata.

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