Quel bicchiere di Barolo che ci ricorda Cristo

Paolo Massobrio, un nome conosciuto nell’arte culinaria italiana. La sua fondazione, “Papillon”, in pochi anni ha abbracciato tutto lo stivale, da Milano a Palermo. L’ho conosciuto alcuni mesi fa, a una cena da lui organizzata per raccogliere fondi per la fondazione “San Rafael”. Sono rimasto impressionato perché per lui la cucina, l’arte culinaria in tutti i suoi aspetti, è parte integrante della sua esperienza di fede. Ascoltarlo parlare di cibo o di vino ti fa desiderare di immedesimarti con le ragioni che muovono la sua vita e il suo lavoro. Per lui la fede si gioca nella vita, dentro un piatto pieno di cibo tradizionale o inventato da lui stesso. Testimonia la stessa sensazione, piena di stupore, guardando e condividendo una squisita bottiglia di Barolo. Per lui Cristo ha a che fare con tutto e in particolare con il suo lavoro, che è sempre finalizzato a cantare la bellezza divina e a sostenere opere sociali ed educative.

Un esempio di questo impegno è stata la cena organizzata in questi giorni. Ha riunito più di mille persone a mangiare, cento in ogni città dove è presente “Papillon”, l’associazione creata da lui. Ogni invitato doveva donare 20 euro per le opere della fondazione “San Rafael”. Per preparare degnamente questo evento ha cominciato inviando agli amici una riflessione nella quale racconta della sua relazione con don Luigi Giussani, in materia di arte culinaria. Un aspetto di Giussani conosciuto da pochi, ma che testimonia come il fondatore di CL amasse tanto la realtà da avere una venerazione per la buona cucina e per il vino. Vi riporto la lettera che Paolo Massobrio ha scritto per la cena del 19 febbraio scorso.
paldo.trento@gmail.com

Uno dei privilegi dei soci di Papillon, che in più di mille sabato e domenica (18 e 19 febbraio, ndr) si apprestano a partecipare a una cena in contemporanea in settanta località per raccogliere fondi per la pizzeria San Rafael di padre Aldo Trento, è la Circolare, ovvero un diario circoscritto della vita e degli incontri di uno che fa di mestiere il critico enogastronomico. Dopo venti anni questo lungo diario è diventato una raccolta di episodi, di persone incontrate, di pensieri. Ogni tanto lo riguardo e proprio in questi giorni m’è venuto in mano un pezzo della raccolta del 2005. Dov’ero in quei giorni? Ero a Montalcino, per assaggiare, come farò la settimana prossima, i 120 Brunello dell’annata. Appena finita la degustazione mi raggiunse la telefonata di un’amica: «Don Giussani si è aggravato». Erano le 17 di un pomeriggio plumbeo nella campagna senese e subito, insieme a Roberto, mi misi a cercare una chiesa per andare a Messa, ma in quella campagna non ci fu nulla da fare. Alle 18, decidemmo che l’unica cosa da fare era cercare un’Abbazia e ci dirigemmo in Val d’Orcia, all’Abbadia San Salvatore. Quando arrivammo erano le 18.30 e il portone era già chiuso. Suonammo, ci venne ad aprire un monaco e subito gli dicemmo il motivo della nostra visita: «Don Giussani sta molto male, vorremmo pregare per lui». 

Il monaco ci guardò come se gli fosse capitata la cosa più strana del mondo, ci aprì una stanza del monastero dove c’era un crocifisso e ci lasciò lì a dire il nostro rosario. 

Quando uscimmo, ci salutò frettolosamente, pensando in cuor suo – almeno sembrava – che fossimo gente ben strana, senza capire che come minimo quel giorno dovevamo pregare in luogo sacro e possibilmente bello. La sera del funerale di Giussani– ricordo – ci trovammo a casa mia, con una decina di amici che erano venuti da lontano per partecipare alla convention nazionale dei delegati di Papillon. Per ricordare don Giussani aprimmo una bottiglia di Bricco dell’Uccellone del 1982, che avevo messo via per lui, per quando sarebbe tornato a casa mia. Quel Bricco così longevo era una scommessa: aveva 23 anni. Lo assaggiammo in silenzio, e non ci sembrava vero che fosse così perfetto, così generoso di racconti, tanto da lasciare una nostalgia dopo l’ultima goccia. Il giorno dopo a San Giorgio Monferrato, ospiti della casa di Piero Portalupi, guardammo il film Il pranzo di Babette, e lì capii che don Giussani era stato per me e per noi quel generale che si stupiva, coglieva il valore dentro le cose di tutti i giorni e ci insegnava a guardarle. Avete presente quella sequenza a tavola, quando Babette porta i suoi piatti abbinati ai vini fatti arrivare dalla Francia? Lì il generale coglie il segno di cosa sia il gusto, e d’un tratto quello che sembrava un semplice convivio diventa esperienza per tutti, fino al canto. 

Don Giussani era povero, nel senso di una virtù che abbraccia l’essenziale, e quando qualcuno gli faceva un dono, in particolare un vino, lui spalancava gli occhi come un bambino: «Barolo?». Era il suo preferito, con inclinazione per quelli più tradizionali, ma da par suo amava anche una Malvasia piacentina, frizzante e molto secca, che produceva Migliorini, barolista di vaglia, legato ai colli piacentini.

Insomma, amava i gusti schietti, riconoscibili, quelli che legano la terra e l’uomo. A inizio gennaio di quest’anno, una sera – lo racconto nell’ultima Circolare che è stata spedita – mi sono trovato con una mia amica di Todi, Almerina, all’Abbazia di Staffarda, tra Pinerolo e Saluzzo. Una maestosa costruzione medievale, bellissima, corredata, oggi, anche da un ristorante, il Sigillo, dove abbiamo mangiato uno stinco di maiale niente male. Quella sera Almerina mi ha raccontato un episodio che le stava particolarmente a cuore. Ossia di quella volta che don Giussani andò a casa sua e lei, per dargli il benvenuto, si procurò un Barolo del 1974. Quando don Giussani vide la bottiglia spalancò gli occhi con sorpresa, si versò il vino e non ne bevve per tutta la sera. Ogni tanto lo annusava, lo guardava, mentre parlava. E tutti si chiedevano perché mai non bevesse quel vino, quasi con un senso di colpa per aver sbagliato a scegliere. Dopo i primi bocconi del secondo, ma quasi alla fine, ne bevve un sorso e interrompendo ciò che stava argomentando disse: «Noi crediamo in questo». E alzò il calice di vino. Un vino come un’espressione del Divino, del bello che abita questo mondo. Questo deve aver pensato don Giussani in quel momento, commosso come di fronte a un quadro.

Ma la cosa che più m’ha colpito del racconto di Almerina è stato il suo atteggiamento: ha voluto che il Barolo si ossigenasse per bene, poi l’ha desiderato ascoltandone l’evoluzione dei profumi e infine lo ha assaggiato, con estremo rispetto. Davanti alla mia scrivania, mentre scrivo queste parole, ho una foto di Giussani che mi è molto cara: mentre fuma un antico toscano e guarda stupito chi ha di fronte a sé, proteso ad ascoltarlo. Come di fronte a quel Barolo del 1974. Quante cose ci ha insegnato quell’uomo e quanta tenerezza provai il giorno in cui venne a casa mia, nel maggio del 1985 e si stupì del Barolo chinato servito come aperitivo. All’Abbazia di Staffarda, quella sera, si capiva che c’era fra noi quella nostalgia di un incontro, che non è una cosa del passato, ma una strada che si può percorrere giorno per giorno. Quanti ricordi bellissimi ci ha lasciato il don Giussani, ma soprattutto quanta “febbre di vita” – come fu detto al suo funerale – ha trasmesso a intere generazioni scuotendole dal torpore di una vita senza sorpresa. A lui, per sorprendersi di un Altro, sarebbe bastato un vino.

Paolo Massobrio

13/2012

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