Quei canti come preghiere

Tratto dal n.18/2012 di Tempi

Lago di Lecco, 25 aprile. La strada che sale da Bellano si fa a ogni curva più stretta e più erta. Poi, quasi in cima, neve: candida, fresca, caduta stanotte sulle montagne. Sul bianco spicca il vaporoso rosa di un ciliegio, avventatamente fiorito. Un sentiero si inoltra dentro un bosco di betulle pallide, le foglie chiare appena germogliate. Silenzio: come se questa neve tardiva avesse ammutolito gli uccelli, le marmotte e le altre creature del bosco. A una curva d’improvviso uno strapiombo: da qui lo sguardo si allarga all’infinito sul lago. Piccolissime le vele delle barche, laggiù. E acciaio, piombo, antracite, ghiaccio: sfumano i grigi dall’acqua al cielo annuvolato.

 

La superficie del lago è perfettamente liscia, specchio immobile in cui si riflette la transumanza delle nuvole in cielo. Massicce nuvole che premono sulla chiostra delle Alpi: si disputano l’orizzonte come truppe di antichi eserciti barbarici che da un altro evo spingano ancora verso il Mediterraneo. Cos’è però, questo sottile spiffero di inquietudine, quassù dal ciglio sul vuoto? Forse solo vertigine, nel constatare quanto piccole e insignificanti sembrano dal cielo le case degli uomini. Oppure è questo lividore di grigi, cupi o algidi, colore di lama di coltello, come l’annuncio di una giustizia severa. O forse l’ansia si sprigiona dalla linea del confine invisibile, laggiù a nord? Quel cielo là in fondo, è già straniero. (Confine: che è eco interiore di un’altra invalicabile, definitiva barriera). Ma giù, dentro il rifugio, fa caldo, e l’odore del brasato si allarga benigno sulle tavole: dove c’è il pane, e il vino rosso come sangue scorre scuro dalle caraffe.

 

Vino che scalda e colma e allarga il cuore. A un tavolo gli avventori parlano forte, ridono, poi cantano, a gola spiegata, vecchi canti montanari. Ne sai la melodia, senza saperne le parole; le hai già tante volte sentite, o forse addirittura ce le hai in una memoria del sangue ereditata da tuo padre, alpino sul Don. I cori esorcizzano il cielo di ghiaccio e acciaio, silenzioso, fuori; e l’orizzonte ampio, infinito, che quasi smarrisce lo sguardo. Questa stanza tiepida pregna di odori di cibo sembra un dolce nido di uomini. E le voci calde che si gonfiano nelle antiche canzoni popolari, sotto a questi orizzonti, a questo cielo vasto, se ascolti bene sono, in verità, una preghiera.

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