Quando Milano era più brutta, tossica e cattiva

Pubblichiamo la rubrica di Marina Corradi contenuta nel numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

Questa Milano dell’Expo: il centro tirato a lucido, le vetrine del lusso arroganti, e gli stranieri, tanti stranieri carichi di buste griffate. È più bella Milano, più elegante, di quella in cui sono cresciuta io. Eppure a percorrerla mi sento come uno che, rientrando a casa, non riconosca più le stanze familiari. La città che io ho visto negli anni Settanta era un’altra.

La luce, intanto. C’era una volta, a Milano, la nebbia. Niente di paragonabile a quella che oggi lambisce timidamente in autunno le periferie. La nebbia della mia adolescenza poteva, certe mattine, essere un muro bianco, cieco, quando aprivi la finestra; e poi con l’avanzare delle ore attenuarsi e rivelare il profilo dei tetti, ma come sfumati, sfocati in una cerulea lontananza. Il sole esangue che riusciva a filtrare faceva le nostre facce pallide, e lividi gli asfalti umidi e lucenti.

La Milano che ricordo io ignorava l’happy hour, le griffes, non conosceva Armani e gli altri. Pochi erano anche i caffè con i tavolini all’aperto: forse perché la città era spesso percorsa da cortei di studenti con il pugno sinistro alzato, fieri, minacciosi. Sembravano voler rivoltare la città dei loro padri.

Era una città austera, e spesso attraversata dalla paura, nell’eco delle sirene delle volanti e della ambulanze. Quando passavano, a raffiche, facevano temere che i terroristi avessero colpito di nuovo. E davvero spesso si fermavano, con stridio di gomme, le luci azzurrine lampeggianti, davanti a un marciapiede sporco di sangue; e la gente se ne stava immobile a guardare, atterrita.

La sera si preferiva stare a casa, non essendo le vie vuote e buie attraenti. I bar non erano, come adesso, nuovi ed eleganti, ma vecchi, e odoravano di fumo; più erano popolari e più la cortina di fumo attorno ai tavoli, come una nebbia, avvolgeva gli avventori. In un angolo c’era un telefono a gettoni, e chi chiamava alzava la voce per farsi sentire, nel baccano del locale. Nei giorni di pioggia i bottegai spargevano per terra la segatura che assorbiva l’acqua colante dagli ombrelli, e diventava una pappa sporca, incolore.

Il traffico era molto peggiore di oggi, e, certe sere di pioggia, incanaglito e immobile, in una furia di clacson: dalle finestre i tetti delle auto in coda una unica lamiera lucente, paralizzata, furente. Non c’erano centri commerciali ma solo botteghe, drogherie, panetterie, e l’insegna indicava semplicemente: “panificio”, non quei nomi vezzosi d’adesso. C’erano mercerie che profumavano di polvere e naftalina, e dietro al banco le vecchie negozianti parlavano esclusivamente in milanese – dando per scontato che quello fosse il comune idioma.

Era una Milano, nei fumi del riscaldamento a carbone, più sporca e tossica, e nella rabbia delle piazze più cattiva. Talvolta mi chiedo dove sono, quei ventenni che promettevano la rivoluzione. Ne riconosco qualcuno brizzolato, elegante, al volante di grossi Suv che rigorosamente partono per il week-end, il venerdì sera.

Milano, però, mi piaceva di più quando era brutta, sporca e cattiva. E meno frivola, e meno distratta; e drammaticamente più vera.

Foto grattacieli da Shutterstock
Foto Lotta continua: Ansa

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