«Prof discriminata perché gay». Quanti errori in quella sentenza

Intervista al giuslavorista Marco Ferraresi sulla sentenza che ha condannato una scuola paritaria a risarcire una insegnante per un contratto non rinnovato

Due anni fa un’insegnante dell’Istituto paritario Sacro Cuore di Trento ha accusato la direttrice, suor Eugenia Libratore, di essere stata discriminata per il suo orientamento sessuale, sulla base di un colloquio in cui si discuteva del suo ipotetico rinnovo del contratto. Ci siamo occupati del caso con un articolo del luglio 2014, quando, tra l’altro, la notizia della causa giudiziaria è stata usata per incolpare anche noi diffondere odio. Pochi giorni fa i processo è arrivato a sentenza, firmata dal Tribunale di Rovereto, che ha obbligato la scuola al risarcimento di un danno patrimoniale e non dell’insegnante, che originariamente aveva preteso anche l’offerta di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Tempi.it ha chiesto un giudizio sulla vicenda al professor Marco Ferraresi, ricercatore confermato di diritto del lavoro dell’Università di Pavia e presidente dell’Unione Giuristi Cattolici di Pavia “Beato Contardo Ferrini”.

Una decisione del genere può “fare giurisprudenza”? Cioè, far fiorire delle cause simili e dare vita così a una tendenza di rivalsa, in virtù di presunte discriminazioni?
Il precedente è pericoloso. La magistratura ha già dimostrato in molte occasioni il proprio favore verso le rivendicazioni dei movimenti gay: pensiamo a quanto sta accadendo in materia di adozioni. Inoltre, la normativa è favorevole ai soggetti presunti discriminati. In base all’art. 28, comma 4, d.lgs. n. 150/2011, è sufficiente che il ricorrente indichi elementi di fatto da cui si possa presumere una discriminazione e si inverte l’onere della prova: spetta al datore di lavoro provare che non vi è stata discriminazione. Nel caso in questione, è bastato il contenuto di un colloquio tra suor Eugenia e l’insegnante per dare il via al procedimento. È tecnicamente più difficile da soddisfare la prova “negativa”, dimostrare cioè che qualcosa non sia avvenuto.

Il risarcimento ammonta a 25 mila euro per la lavoratrice, più 1.500 euro per la Cgil e Certi diritti, le parti che hanno fatto ricorso, 8 mila euro di spese e l’obbligo di pubblicazione sui giornali locali della sentenza. Di solito a quanto ammontano i risarcimenti? È una cifra superiore alla norma?
Siamo nella massima incertezza, perché la legge non offre parametri per la quantificazione del danno, specialmente quello non patrimoniale. Il che significa che ogni giudice fa di testa sua. La scarsissima giurisprudenza su questa materia, peraltro, impedisce di potersi orientare in base ai precedenti. La cifra di 25.000 euro deriva probabilmente dalla somma di 10.000 euro a titolo di danno patrimoniale per il mancato rinnovo del contratto di docenza e di euro 15.000 a titolo di danno non patrimoniale, derivante dalla accertata discriminazione. La somma in favore delle associazioni intervenute nel procedimento deriva, secondo il giudice, dai riflessi sulla collettività della discriminazione della singola lavoratrice. La stessa legge prevede la possibilità di condannare il datore di lavoro a pubblicare il provvedimento sui giornali, a proprie spese. Il fatto che il giudice abbia scelto di far pubblicare la sentenza su due quotidiani locali, invece che su uno nazionale (come dispone l’art. 28, comma 7, d.lgs. n. 150/2011), fa aumentare ancor più la cattiva pubblicità sulla scuola in questione proprio nel suo territorio.

Suor Eugenia è morta nel settembre scorso. È corretto portare a termine un processo anche quando una delle parti è deceduta?
Dal punto di vista giuridico, la parte datoriale non era costituita da suor Eugenia, ma dall’Istituto Sacro Cuore. Quindi è inevitabile che la controversia sia giunta sino alla sua conclusione, nonostante la morte della persona che rappresentava la scuola all’epoca dei fatti. Certo, la morte di suor Eugenia ha inciso negativamente sulle possibilità di difesa del datore di lavoro, perché rimasto privo della persona maggiormente informata degli eventi.

In questo caso la professoressa non è stata licenziata, si trattava infatti di una scadenza di contratto. Peraltro in quello stesso anno, il 2014, altri contratti in scadenza non sono stati rinnovati dall’Istituto, a parte quello dell’unico docente che aveva conseguito l’abilitazione. Ci sono altri casi simili, che lei sappia, in cui è stato dato torto al datore di lavoro, o questa sentenza rappresenta un unicum?
Dice bene: non è stata licenziata, come invece alcuni hanno affermato. Semplicemente non è stato rinnovato un contratto a tempo determinato. Il rinnovo dipende dalle necessità del nuovo anno scolastico e dunque non può essere scontato. Dalle cronache sembra che, semplicemente, la scuola abbia deciso di stabilizzare il rapporto di lavoro con personale in possesso delle necessarie abilitazioni, di cui invece la ricorrente presunta discriminata era sfornita. Quanto ai precedenti, non sembra proprio che l’Italia sia un Paese omofobo. L’unico caso che mi consta è quello dell’avvocato Carlo Taormina, condannato per aver affermato a La Zanzara di Radio 24 di non voler reclutare persone omosessuali nel proprio studio legale.

Quali sono i punti della vicenda che più l’hanno colpita, dal punto di vista del diritto del lavoro?
Mi colpiscono i clamorosi errori di fatto e di diritto in cui l’ordinanza del giudice è incorsa. Innanzitutto un errore di fatto: dove è qui la discriminazione, cioè il trattamento meno favorevole rispetto ad altri lavoratori in situazione analoga? La lavoratrice non aveva alcun diritto, né poteva avere alcuna aspettativa al rinnovo del contratto. E la scuola aveva la piena libertà, appunto, di non rinnovare il contratto stesso. Poi vedo un errore di diritto: alla controversia si sarebbe dovuto applicare l’articolo 3, comma 3, d.lgs. n. 216/2003, per il quale «nel rispetto dei princìpi di proporzionalità e ragionevolezza e purché la finalità sia legittima, nell’àmbito del rapporto di lavoro o dell’esercizio dell’attività di impresa, non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2 quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla religione, alle convinzioni personali, all’handicap, all’età o all’orientamento sessuale di una persona, qualora, per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività medesima». Spieghiamo meglio. Stiamo parlando di una scuola, dell’insegnamento, dell’educazione dei ragazzi. Stiamo parlando di un istituto cattolico. Come può non essere rilevante la sessualità in un simile contesto? A maggior ragione quando è la stessa lavoratrice a esternare le proprie convinzioni in questo ambito. Il giudice ha invece deciso, e immotivatamente, che l’orientamento sessuale non ha a che fare con l’ispirazione religiosa di un istituto. La Sacra Scrittura e il Catechismo sono evidentemente diventati modificabili da parte di un giudice. Nonostante la legge tuteli le cosiddette “organizzazioni di tendenza” (partiti politici, sindacati, enti religiosi o caritatevoli, per esempio) a poter scegliere i propri lavoratori sulla base del rispetto delle idee che sono al centro delle stesse.

La sentenza della Corte costituzionale 29 dicembre 1972, n. 195, afferma che le scuole paritarie hanno la libertà di scegliere il proprio personale docente, ma durante il processo questa norma è stata scavalcata.
Sì. E il principio di diritto di questa sentenza della Corte costituzionale è stato confermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con decisione del 20 ottobre 2009, nel “caso Vallauri”, relativo a un professore al quale l’Università cattolica del Sacro cuore non aveva rinnovato il contratto per alcune sue tesi eterodosse e l’adesione a discipline orientali. Contrariamente a quanto spesso si dice, la Corte europea ha ribadito il concetto espresso dalla nostra Corte costituzionale: basti leggere ad esempio i punti 41 e 78 della sentenza europea. Non ve ne è traccia nell’ordinanza del giudice roveretano: incredibile. Come non vi è traccia di un altro precedente simile, il “caso Obst” del 23 settembre 2010, a riguardo di un lavoratore dipendente della Chiesa mormone tedesca, che aveva una relazione extraconiugale. Queste autorevoli sentenze affermano un principio molto chiaro: le organizzazioni di tendenza (cioè gli enti che hanno una identità ideale) possono esigere che il lavoratore aderisca ai valori del datore di lavoro, perché ciò è necessario al perseguimento delle finalità dello stesso. Ma lei se lo immagina un partito di sinistra che si debba tenere un militante di estrema destra per non essere condannato per discriminazione per motivi politici?

L’Istituto Sacro Cuore di Trento opera dal 1844, e si occupa dell’educazione di migliaia di ragazzi. Purtroppo con questa vicenda la scuola è stata al centro delle polemiche a lungo, e la sua tranquillità è venuta meno. Crede che questa sentenza abbia minato il diritto allo studio degli alunni dell’Istituto?
Direi di più. La scuola è stata oggetto di linciaggio mediatico. Ma si dimentica che, prima ancora della scuola, c’è di mezzo il diritto dei genitori di educare i figli secondo le proprie convinzioni. Ciò che porta molte famiglie a scegliere le scuole cattoliche (spesso, tra l’altro, a prescindere dalla loro adesione alla fede). Quando i genitori iscrivono i figli a scuola, sottoscrivono un progetto educativo che è vincolante per la scuola stessa. Se questa intrattenesse rapporti di lavoro con insegnanti che di fatto non aderiscono ai princìpi del progetto educativo, sarebbe inadempiente nei confronti dei genitori. In questo caso, sì, essi avrebbero sacrosante ragioni per muovere causa all’istituto.

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