Periferie esistenziali. Viaggio nelle township del Sudafrica dove anche gli ideali di Mandela valgono poco

Nelle baraccopoli sudafricane non reggono le suggestioni terzomondiste né il mitico spirito ubuntu davanti alla violenza, le invidie e la povertà


Continua il viaggio di 
Tempi nelle periferie esistenziali. Le tappe precedenti: Rodolfo Casadei tra Camerun e Ciad nella regione dei tupurì africaniMonica Mondo in una borgata romana, Piero Gheddo nella missione di padre Belcredi in Amazzonia, Gian Micalessin a Shura Ashuk (Tripoli) con suor Emma Moja, Antonio Gurrado a Oxford, Angelica Calò Livné in Israele, nel kibbutz Sasa.

Da Stellenbosch (Sudafrica). Hanno spesso nomi che non rendono l’ingiustizia che vi alberga, ma uno spirito ottimista nonostante tutto. Le township sudafricane sono ammassi di baracche di latta e di vite umane che combattono con niente contro la violenza omicida e senza limiti, contro la sopraffazione e la povertà, contro il freddo invernale breve ma intenso e il caldo infernale delle lunghe estati, eppure si chiamano “luogo della promessa”, Tembisa; “luogo della felicità”, Tsakani o Thokoza; “luogo della pace e della tranquillità”, Zola. Nomi belli forse solo per esorcizzare la dura realtà quotidiana. O nomi altisonanti e d’auspicio come quelli che i genitori assegnano ai propri figli, Winston – come Churchill, si batte il petto gonfio mentre si presenta un giovane coi capelli lunghi e ricci e il fisico da ballerino – o Sophia come la bella Loren, o Nelson, proprio come il comandante. L’ultimo nato degno di nota porta il nome Domiziano, sì, l’imperatore romano.

Si dice per brevità che le township siano l’equivalente dei barrio messicani, degli slum di Calcutta o di Nairobi, delle favela brasiliane, ma chiunque ci entri per la prima volta viene assalito innanzitutto dall’unicità delle città satellite sudafricane, dalla vitalità che vi si respira, dalla stupefacente accoglienza gratuita. Anche se ci sono angoli dove gli olezzi sono pugni nello stomaco, anche se i bambini corrono in mezzo alle strade con tutti i pericoli ai quali difficilmente sfuggono, anche se non è difficile vedere i segni di un qualche incendio che ha lasciato senza baracche migliaia di persone nel giro di pochi minuti. E con tutta la violenza che si può appena immaginare.

Mi trovo a Kayamandi, “casa dolce casa”, quando a inizio giugno un gruppo di vandali ha appena distrutto alcuni dei locali del Corridor, l’edificio delle associazioni creato durante i Mondiali nel 2010. Si dice che siano stati militanti dell’African National Congress, l’Anc, il partito che fu di Mandela e che governa il paese da vent’anni: era la loro forma di protesta contro un convegno su programmi di sviluppo economico della comunità, a cui le Ong hanno invitato anche l’amministrazione cittadina, a guida Da, Democratic Alliance, il principale partito di opposizione considerato impropriamente il partito dei bianchi. Con le magliette gialle e l’effigie del presidente Jacob Zuma, si sono presentati al dibattito denunciando la rabbia per non essere stati adeguatamente coinvolti nei vari progetti.

Solidarietà precaria
Il sottotesto dice della precarietà del tanto decantato spirito “ubuntu”, come mi spiegano a margine dell’incontro gli organizzatori: ubuntu – parola zulu per indicare una filosofia tutta sudafricana che significa “io sono quello che sono attraverso quello che siamo” – è un’etica di reciproco aiuto, amore e rispetto per il prossimo. Disse Tata Madiba, amato e onorato padre del Sudafrica democratico: «Una persona che viaggia attraverso il nostro paese e si ferma in un villaggio non ha bisogno di chiedere acqua e cibo: subito la gente le offre di che bere e di che sfamarsi, la intrattiene. Questo è un aspetto ubuntu ma ce ne sono altri. Ubuntu significa non pensare a se stessi ma chiedersi: voglio aiutare la comunità che mi sta intorno a migliorare?».

Ecco, è proprio su questa domanda che s’incaglia la realtà: «La benevolenza, la mutua assistenza, l’umanità verso gli altri sono automatiche tra pari, finché tutti condividono la stessa condizione di privazioni», prova a spiegare Lindela, dispiaciuto ma intellettualmente onesto. «Non appena si cominciano a introdurre elementi di differenziazione, scatta la competizione, la rivendicazione, il conflitto». L’assegnazione di una casa come si deve segna la fine della pace sociale, la distribuzione di borse di studio comporta il sacrificio dell’amore fraterno, finanziamenti per implementare l’autonomia delle donne alimentano una misoginia già fin troppo diffusa.

Ennesima lezione africana, risveglio dal torpore buonista, quello che fa esclamare “eppure quanta dignità” ogni volta che si vede un povero sorridere o offrirti un piatto di riso e una birraccia fatta in casa. Non che queste cose non le sappiamo, ma noi con le spalle coperte tendiamo a rimuoverle per paura di essere politicamente scorretti e perché in fondo non siamo abituati a dover lottare per qualcosa di più del solito pollo, per l’acqua pulita, per l’elettricità che oltre alla luce ti garantisca una doccia calda. E perché in fin dei conti ci fa anche un po’ bene non vedere che c’è invece chi vive così, mentre noi buttiamo via il cibo fresco, tracanniamo da bottigliette di plastica acqua di fonte e prendiamo posto in una vasca piena e spumeggiante di porcherie biologiche ecocompatibili. Lo sappiamo anche “noi” che più si ha e più ci si chiude nell’orticello, ci si blinda e ci si arma, non si saluta nemmeno il vicino di casa e si tiene la contabilità di amici e conoscenti: perché non dovrebbe essere lo stesso anche per “loro”, i poveri, quelli poveri davvero?

Quelli che ci provano
Le organizzazioni non governative vanno avanti spedite. «Non siamo interessati ai risvolti politici di quello che facciamo, vogliamo solo dare la possibilità ai sudafricani di avere una casa degna di tale nome, un’istruzione migliore di quella che oggi viene garantita nelle scuole delle township, di poter risparmiare per progetti di vita a lungo termine: noi lavoriamo con chi condivide il nostro stesso obiettivo di dare migliori modelli per sconfiggere la povertà e non ci interessa il colore della pelle», spiega Thumakele Gosa, di Imbadu, che fa notare come le proteste siano isolate e strumentalizzate. «In questo momento ci sono 600 persone che riescono a risparmiare tra i 100 e i 500 rand al mese su stipendi che vanno dai 700 ai 15 mila mensili». Per avere un’idea in euro dividete adesso per 14 e otterrete cifre inconsistenti, soprattutto se confrontate a un costo della vita di poco inferiore a quello dell’Italia. Ma come si può vedere, anche chi ha guadagni più alti nella maggior parte dei casi decide di continuare a vivere in township «come scelta calcolata per contribuire al miglioramento degli standard di vita collettivi», aggiunge Gosa.

Forte, in questo lavoro, è il ruolo delle chiese: ce ne sono di nuove ogni giorno, sul modello americano. Ma per lo più sono cristiane: pentecostali, protestanti, metodiste, cattoliche. Tandeka, domestica, e suo marito, operaio, vivono in una delle nuove casette in muratura: fino a cinque anni fa stavano ammassati con tutta la famiglia in una “shack” (le baracche di lamiera) e ora che hanno più spazio hanno sempre in affido almeno una ragazza alla quale garantire un’istruzione come hanno già fatto coi loro quattro figli. Se non stessero con loro, e con tanti come loro, per questi giovani ci sarebbe una vita di povertà ancora più estrema, ci sarebbe droga, stupro, fino alla morte per le ferite, per gli stenti, di Aids. Non è difficile incrociare bambini che sniffano colla o fumano Mandrax, a base di metaqualone: entrano a far parte di baby gang che rubano a quelli un po’ meno poveri di loro e se non muoiono diventano grandi in fretta. Temuti ma anche ammirati.

Ogni quattro minuti uno stupro
Gli alti tassi di criminalità del Sudafrica di cui si legge qua e là si concentrano soprattutto qui, nelle township, e si consumano tra neri. Ogni quattro minuti, è stato stimato, avviene una violenza sessuale. Le vittime sono bambini come anziani, donne come uomini, ragazzi come ragazze. Ricercatori europei e statunitensi vengono qui a studiare i perché e i per come, i volontari fanno quello che c’è da fare, alcuni scegliendo coraggiosamente di vivere dove operano – singolari “mlugu”, bianchi, in un mare nero – ma in contesti decisamente più sicuri e con un posto bello e confortevole dove un giorno tornare.

Allo Spaza shop, uno dei tanti piccoli supermercati delle township, Sibelo prende coraggio per dirmi che un giorno gli piacerebbe sposare una ragazza, guarda caso italiana, per avere la possibilità di viaggiare, di vedere altri panorami. M’intenerisce e vorrei essere un po’ Marta Flavi mentre bastano quelle poche sincere parole a farmi sentire la distanza abissale che esiste tra questi mondi, quando non c’è un aereo facile da prendere ma bisogna inventarsi stratagemmi dove l’“amore” è la migliore delle opzioni. Come lui, tanti vorrebbero andar via, invece il numero delle shack aumenta di notte in notte, mentre arrivano dall’Africa ancora più povera nuovi vicini di casa sgraditi, dallo Zimbabwe e dall’Angola, e gli odiatissimi somali che rimpiazzano i sudafricani nei negozi delle township. Perché c’è anche un problema xenofobia, in Sudafrica: neri contro neri più neri, o comunque gente venuta da fuori a portar via agli indigeni lavoro e donne.

La risata di Denise (o Thembi, ogni volta cambia nome) è un movimento di liberazione femminile che parte dallo stomaco ed esce da un esofago di carta vetrata per il troppo cattivo fumo. «Sì, sì, gli uomini sudafricani non sono affidabili, non hanno voglia di lavorare e noi preferiamo gli altri», dice. Al suo fianco c’è Mark che sorride e non dice parola in nessuna delle undici lingue sudafricane e nemmeno in slang: tanto lui ha cinque figli, «forse sei», mi aveva confidato con leggerezza mentre camminavamo nella township più pericolosa del paese. Alexandra è una delle più antiche suburbie di Johannesburg, quella in cui abitò un giovane Mandela appena arrivato dalle campagne dell’Eastern Cape, l’allora Transkei. Ad Alexandra entro da sola perché non ho il tempo di organizzarmi per una “scorta”: mi danno tutti della matta, compresi Mark e Denise che a un certo punto incontro per caso e che mi affiancano per l’intera giornata per rendere più “safe” il mio già disinvolto incedere. Con loro visito gli ostelli che nei primi anni del Novecento erano stati costruiti per i lavoratori richiamati a migliaia da Jo’burg e dalle sue miniere: sono divisi in maschili e femminili, e ancora oggi è così. Sono piccole camerette con angolo cucina, per single, che anche quando mettono su famiglia preferiscono vivere separati dalla moglie o dal marito pur di non perdere quelle quattro mura e tramandarle di generazione in generazione.

Entriamo, subito re-spinti, da un “sangoma”, un santone, il loro medico tradizionale: la sua casa la riconosci dalle pelli di animali “sacri” appese al sole assieme a tutta una serie di ninnoli necessari per riti e pozioni. Ancora oggi, nel 2014, non è difficile morire a causa di qualche terapia errata prescritta per malattie altrove già debellate. Si racconta che quando nell’agosto 2012 la polizia sudafricana uccise una quarantina di minatori in sciopero, uno dei motivi della degenerazione della protesta fu proprio un sangoma che aveva somministrato a molti di loro un beverone magico che li avrebbe resi «invincibili».

La bambina madre
Mi inoltro tra i palazzoni di nuova costruzione – brutti come in certe periferie disgraziate italiane – e le casette di mattoni rossi volute dai governi dell’apartheid, dimore minuscole alle quali si accede da pretenziose e bellissime porte di legno lucidato e intarsiato. Entro in 15 metri quadrati di ammasso di lamiera dove vivono dieci adulti e quattro bambini, più uno in arrivo, come mi spiega la “mami” mentre mi indica il pancione della timida figliola quindicenne. Il padre è un irresponsabile che non se ne farà carico, mentre la ragazza è una delle decine di migliaia di adolescenti che abbandonano la scuola per una gravidanza “imprevista” che però garantirà un assegno mensile di 20 euro circa. Chiacchiero per una buona mezz’ora con due sostenitori del “socialista rivoluzionario” Julius Malema, che millanta un futuro di case, servizi e istruzione gratis per tutti: i due militanti mi spiegano perché ci credono e alle mie resistenze mi fanno notare che parlo bene io, che non vivo nella township ma la visito con i miei occhi da bianca. Colpita e affondata, perfino io che pensavo di essere “di casa” qui. E che con fastidio ho tante volte ascoltato le domande di chi accompagno a fare esperienza vera di questa realtà unica e complessa.

Perché le township sono luoghi in cui un occidentale pasciuto arriva e rimane deluso: tante volte mi sono sentita chiedere se son tutte così, tutto sommato accettabili. Niente capanne, niente bambini con le mosche attorno a nasi mocciosi, niente donne pelle e ossa, niente elemosinare soldi e cose: «Magari vale la pena andare anche in un’altra, magari Soweto, che ne dici?», mi chiedono sempre, bramosi di portare a casa una foto ricordo da crocerossine d’altri tempi, o magari foto colonialiste mentre si distribuiscono penne e quadernetti pressati in valigia, cioccolatini sottratti all’albero di Natale e qualche vestitino di seconda e terza mano. E il racconto di “come sono poveri eppure quanta dignità”, e di quanto, in fondo, siamo brava gente.

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