Perché tutti hanno voluto ricordare Giovanni Sartori “dimenticandone” un pezzo

Cresciuto alla scuola del realismo e dell’elitismo, era irriducibile agli schemi ideologici, indisponibile a dissimulazione e compromesso. Insomma un rompicoglioni

«Professore lei ha da suggerire un nome per la nomina dei senatori a vita?», domandai per Panorama a Giovanni Sartori nell’estate 2013 alla vigilia dell’ultima infornata di Highlander a Palazzo Madama. «Sì certo: il mio. Sta a me. A me. Lei non crede?». Giovanni Sartori era un’intelligenza affilata come un rasoio da cui emanavano insieme uno straordinario orgoglio e una smisurata ironia. Aceto toscano purissimo gli bastava una frase per restituire la sostanza d’un politico o d’una situazione, una parola per referenziare una legge elettorale o un costume politico.

E tuttavia ricordarlo per le sue battute significherebbe ridurlo appunto a un battutista. Invece Sartori è stato, assieme a Gianfranco Miglio e a Norberto Bobbio, uno dei giganti della scienza politica del Novecento. Ed è stato lui per primo a conferire alla scienza politica in Italia uno statuto autonomo. Soprattutto Vanni Sartori è stato un grande conservatore liberale cresciuto alla scuola del realismo politico e dell’elitismo. Una figura irriducibile agli schemi ideologici, indisponibile alla dissimulazione, naturalmente refrattaria al compromesso intellettuale, insomma un rompicoglioni cosciente e divertito di esserlo.

Non aveva – e lo sapeva – il curriculum adatto per fare il senatore a vita. E del resto l’aver distribuito equamente scudisciate a destra e sinistra per più di tre lustri – scudisciate così precise da toglier la pelle di dosso – l’aveva reso inviso a tutti. La destra non gli ha mai perdonato gli strali contro il “sultanato” berlusconiano e “il regime mediatico”, l’incapacità di fuoriuscire dal leaderismo e costituzionalizzarsi in un blocco di idee e di interessi; la sinistra – che non aveva mai dimenticato il suo sprezzo nei confronti della sottocultura sessantottina a cui preferì la migrazione verso la Columbia University negli Stati Uniti – l’aveva rimesso nel mirino per l’allarme su multiculturalismo e islamizzazione.

«L’islam – scriveva Sartori – non è una religione domestica; è invece un invasivo monoteismo teocratico che dopo un lungo ristagno si è risvegliato e si sta vieppiù infiammando. Illudersi di integrarlo “italianizzandolo” è un rischio da giganteschi sprovveduti, un rischio da non rischiare». Pluralismo, multiculturalismo ed estranei (Rizzoli 2000) non l’ha citato quasi nessuno in questi giorni di commiati ed elogi ma l’ha scritto Sartori con lucidità e convinzione, rivendicando fino all’ultimo quelle posizioni. Tuttavia sarebbe da ingenui stupirsi che ognuno oggi lo ricordi rimuovendo la lezione inflitta alla propria parte: la destra trovando nel suo discorso conferma sulle politiche migratorie, la sinistra sull’antiberlusconismo. Non a caso i coccodrilli del 5 aprile sulla stampa italiana presentavano a seconda della testata simmetriche scelte selettive sulle posizioni del professore.

Ma questo è in fondo l’aspetto più contingente della grande vicenda scientifica e intellettuale di Sartori. Ciò che resta come patrimonio teorico è la sua riflessione realista sulla democrazia occidentale condotta sulla scia dell’elitismo competitivo di Schumepeter e della lezione dei grandi classici nostri: Mosca e Pareto. Una riflessione messa in tensione più recentemente con la minaccia insita nella globalizzazione verso il modello politico occidentale. Democrazia e definizioni, pubblicato in Italia nel 1957, propone una visione laica realista della democrazia lontana da ogni perfettismo ideologico e normativo e basata sull’idea della responsabilità individuale del cittadino attivo e informato. Un discorso che prosegue con Parties and Party Systems, del 1976, e con The Theory of Democracy Revisited (1987).

Sartori era uno scienziato politico che si era a lungo intrattenuto con la filosofia e il pensiero della crisi: accanto al problema dell’ingegneria costituzionale si poneva il problema antropologico della decadence e dell’avvento della post-intelligenza. In Homo videns del 1997 descrive i primi sintomi dell’ipnosi di massa indotta dalla comunicazione visiva che si accentuerà con l’esplosione dei social media. Siamo di fronte, dice Sartori, a «un video-bambino che non cresce, un adulto che per tutta la vita è un ritornante bambino, vede ma non capisce. È, la nostra, l’epoca del post-pensiero» (Homo videns, Laterza 1997).

Vanni Sartori era un conservatore a cui pareva che la politica italiana fosse divenuta una cosa per guitti e ne descriveva gli attori con ironia sempre più acuminata e amara. «Se Grillo continuasse a crescere l’Italia diventerebbe il pagliaccio del mondo», profetizzava. E di Renzi, che aveva incontrato una volta ricevendone un confidenziale bacio sulla guancia, parlava come di «un omino peso piuma malato di velocismo».

Di questo spirito inquieto con la faccia da uccello rapace mancheranno gli affondi e il pessimismo attivo, ché «il male – diceva il professore – lo fa l’ottimismo e il tranquillismo che inducono a non far niente».

Foto Ansa

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