Perché impegnarsi anche oggi per i valori non negoziabili

Incontro un vecchio amico un po’ su di giri per non so quale motivo, che mi apostrofa così: «Allora, ti prepari a nuove battaglie in nome dei valori non negoziabili? Sprecherai energie per battaglie perse in partenza sul gender nelle scuole, la cannabis legalizzata e l’eutanasia? Ancora non lo capite che la testimonianza chiesta oggi ai cristiani è un’altra?». Gli faccio notare che l’espressione e il concetto di “valori non negoziabili” provengono da papa Giovanni Paolo II e dall’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede card. Joseph Ratzinger, cioè dall’autorità della Chiesa. E che sul dovere dei cristiani di essere attivi sul piano pubblico quando la vita è minacciata, Giovanni Paolo II si è espresso in toni drammatici. Gli ricordo l’omelia della Messa a Washington, durante la prima visita apostolica negli Stati Uniti nel 1979: «Reagiremo ogni volta che la vita umana è minacciata», con annesso elenco di temi bioetici e socio-economici che richiedono al cristiano di esporsi politicamente. «Sono interventi del passato che oggi non puoi riproporre tali e quali», mi risponde. «Vanno reinterpretati. E comunque il punto è che col tuo approccio non cambierai né la vita morale delle singole persone, né le leggi che osteggi». Avrei voluto rispondergli che i Vangeli sono in giro da quasi duemila anni, e che la loro forza comunicativa sta proprio nel fatto che sono riproponibili senza reinterpretazioni. Ma ho lasciato perdere, giudicando che fra noi non c’era il clima di un autentico dialogo. Oggi tutti si riempiono la bocca con la parola “dialogo”, ma più spesso ripetono la parola, meno la mettono in pratica.

Prenderò parte, nella misura in cui la mia pigrizia e il mio poco coraggio me lo consentono, alle prossime battaglie verosimilmente perse in partenza sul gender nelle scuole, la legalizzazione della cannabis e dell’eutanasia, il matrimonio e l’adozione per le coppie dello stesso sesso, l’utero in affitto, la regolamentazione legale della prostituzione, il diritto all’obiezione di coscienza per chi è coinvolto come pubblico ufficiale in tutte queste pratiche, la difesa della libertà di pensiero, di parola e di espressione contro tutte le leggi Scalfarotto di questo mondo. E lo farò nella consapevolezza che oggi il clima culturale dominante è tale, e i rapporti di forza sono tanto sbilanciati a favore dei nemici della vita (autoproclamati promotori di inesistenti diritti), che l’esito politico di queste battaglie sarà prevalentemente negativo.

Lo farò non per coprire con l’attivismo un qualche vuoto di esperienza esistenziale, ma per rispondere a una vocazione, a una chiamata. La chiamata ad accettare e abbracciare l’ora della persecuzione che scocca sul quadrante della storia e, poiché io sono un contemporaneo, della mia vita personale. Per usare il linguaggio di Viktor Frankl, lo psicanalista ebreo viennese che ha creato la logoterapia, vivo le presenti circostanze non come homo faber, ma come homo patiens. Il primo è l’uomo che realizza il senso della sua esistenza con atti creativi che modificano il dato di realtà: costruisce una casa, fonda una scuola, scrive un poema, vince una guerra o una competizione elettorale politica, approva una Costituzione, difende il buon diritto dei piccoli e dei deboli promulgando leggi giuste e abolendo quelle ingiuste, dà da mangiare agli affamati e dà da bere agli assetati, avvia un’impresa industriale o un ente no profit, eccetera.

Il secondo, invece, è colui che assume consapevolmente su di sé, che fa proprio e interiorizza, un destino inevitabile, che non ha scelto lui, ma che gli è stato presentato dalla vita senza possibilità di alternative. È l’uomo che, come Cristo nel Getsemani, prega con le parole: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà». L’homo patiens è il malato terminale di cancro, è il portatore di handicap gravissimo, è il condannato a morte prossimo all’esecuzione della sentenza, è l’ergastolano, è la sposa di un matrimonio combinato dalla sua famiglia, è il figlio su cui ricadono i debiti contratti dal padre, è il balbuziente, è il dislessico, è l’uomo o la donna sterili: sono tutti coloro ai quali tocca una sofferenza che non possono in alcun modo evitare con azioni, reazioni, iniziative. Tranne che con quel tipo di azioni che pongono fine alla loro vita: il suicidio o l’eutanasia. Tali azioni implicherebbero un giudizio: che quella condizione di sofferenza non ha alcun senso, che in quelle determinate condizioni la vita diventa totalmente priva di significato e dunque di dignità. L’homo patiens ha la possibilità di dimostrare che quel giudizio è falso. Egli può fare un’esperienza di appagamento, analoga a quella del politico che vince un’elezione o dello scrittore che scrive un bellissimo romanzo o dell’artigiano che produce un bellissimo mobile, se accetta come missione, come compito, quello di abbracciare e portare la sofferenza inevitabile che gli tocca. Se dimostra a se stesso e al mondo che «si può vivere così». Anzi: questa azione così speciale che è l’accettazione della croce è moralmente più meritoria dell’azione creatrice che ha per scopo un determinato risultato. Scrive Frankl: «La accettazione, almeno nel senso che essa ci fa sopportare in modo giusto e leale un destino autentico, è essa stessa un’azione; meglio ancora, essa è non solamente “una” prestazione, ma “la più alta” prestazione che all’uomo sia dato di realizzare».

Perché l’appagamento che viene dall’accettazione della sofferenza, cioè dall’accettazione della frustrazione dei propri desideri, sarebbe moralmente superiore, sarebbe più nobile dell’appagamento che viene dalla realizzazione dei propri progetti, dal compiersi dei propri desideri da parte dell’homo faber? Perché quello dell’homo patiens è un appagamento che non ha bisogno del successo. L’homo faber gode solo se riesce nei suoi intenti, l’homo patiens gode nel cuore stesso del suo fallimento.

La malattia o una particolare condizione di schiavitù sociale non sono le uniche forme di destino doloroso cui non ci si può sottrarre, e del quale si può affermare il significato solo accettandolo e abbracciandolo. Ci sono destini ai quali è la coscienza del singolo che non si può sottrarre: l’ostetrica svedese che non potrà più lavorare nel suo paese perché nessuna clinica assume personale che si rifiuta di compiere interruzioni di gravidanza, il Testimone di Geova eritreo che si fa vent’anni di lager perché rifiuta il servizio militare, l’impiegata cristiana pentecostale del Kentucky incarcerata perché nega la registrazione di un matrimonio omosessuale, gli uomini yazidi che vengono passati per le armi dall’Isis perché si rifiutano di abiurare la loro religione, il sacerdote cattolico caldeo iracheno che viene trucidato perché rifiuta l’ordine dei jihadisti di chiudere i battenti della sua parrocchia in quanto «io non posso chiudere le porte della casa di Dio». In tutti questi casi, a imporre di abbracciare un destino doloroso non è una costrizione biologica o fisica, ma la costrizione della coscienza, il vincolo indissolubile della coscienza.

È proprio con questo spirito che oggi molti, cristiani e non solo, rispondono alla chiamata alle armi delle battaglie culturali e politiche che si profilano all’orizzonte. Non si tratta di una militanza scelta in vista della vittoria, ma dell’assunzione su di sé di un destino che non possiamo eludere, di una croce che ci è chiesto di portare perché si compia il Suo disegno. In analogia con quanto è stato chiesto a Gesù: «E cominciò a insegnar loro che il Figlio dell’uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare». (Mc 8,31). A chi in Occidente non rinuncia a richiamare le coscienze alla verità e alla giustizia sulle materie della vita, della famiglia, del diritto all’obiezione di coscienza, toccherà un martirio che probabilmente non sarà quello fisico cruento richiesto a Cristo. Sarà una combinazione di violenze morali e psicologiche: emarginazione, demonizzazione, esclusione dai posti di responsabilità e da certe professioni, punizioni simboliche, ecc.

Chi oggi invita i cristiani ad astenersi dall’impegno pubblico sui temi sopra citati in considerazione del probabile fallimento politico dei loro sforzi, propone un’etica che non è quella cristiana: l’etica del successo. Ma non sarà mai vero che un’azione, di qualunque tipo, ha senso solo se coronata da successo. L’etica cristiana comporta l’essere liberi dall’esito, perché l’esito di ogni cosa è nelle mani di Dio, Suo è il disegno, Signore della storia è Lui, non noi. L’indisponibilità di tanti a rendere testimonianza pubblica nel tempo presente anche alle verità cristiane che sono diventate scomode per la cultura e i poteri dominanti, giustificata con un misto di argomentazioni teologiche e sociologiche, appare dettata dal desiderio di non patire la sofferenza della sconfitta, del ritrovarsi in minoranza, del linciaggio morale. Salire sulla croce non è una decisione facile, Gesù in persona ha cercato di eluderla. Certo, deve essere una decisione libera e nessuno deve permettersi di gettare la suddetta croce sulle spalle di chi non la vuole portare. Ma se chi non la vuole portare per giustificarsi sente il bisogno di accusare di nefandezze varie (fondamentalismo, integralismo, ideologismo, ecc.) quelli che stanno cercando di abbracciarla, una puntualizzazione come questa diventa una necessità.

RodolfoCasadei

Foto da Shutterstock

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