Perché celebrare il 9 novembre, «Giorno della libertà»

Sebbene passi quasi inosservato è l'occasione per riflettere su un evento epocale, la caduta del Muro di Berlino. Studiare i totalitarismi del passato per capire quelli del presente

Gli ultimi momenti che precedono la caduta del ‘Muro di Berlino’, in una foto d’archivio del novembre 1989 (foto Ansa)

Un solo articolo, breve e asciutta la Legge 15 aprile 2005, n. 61 Istituzione del «Giorno della libertà». 1° comma. La Repubblica italiana dichiara il 9 novembre «Giorno della libertà», quale ricorrenza dell’abbattimento del Muro di Berlino, evento simbolo per la liberazione di Paesi oppressi e auspicio di democrazia per le popolazioni tuttora soggette al totalitarismo. 2° comma. In occasione del «Giorno della libertà», di cui al comma 1, vengono annualmente organizzati cerimonie commemorative ufficiali e momenti di approfondimento nelle scuole che illustrino il valore della democrazia e della libertà evidenziando obiettivamente gli effetti nefasti dei totalitarismi passati e presenti».

È un vero peccato che l’anno scorso (e quest’anno come andrà a finire?) la parte più chiassosa del mondo della scuola, abbia dato l’assalto al ministro dell’Istruzione perché aveva semplicemente invitato a promuovere riflessioni sul tema, come da legge dello Stato, appunto. Un peccato, occasioni perse. Occasioni per riflettere su un evento epocale, di quelli che articolano la scansione della Storia in un Prima e un Dopo e che invece il mondo dei comunicatori preferisce ignorare. Che siano accademici o giornalisti, saggistica o romanzi, cinema o teatro, tutti sul 9 novembre e più in generale sull’89 e sull’intero ciclo, «l’unico caso conosciuto nella storia dell’Uomo di crollo di un grande impero, in tempo di pace, per motivi esclusivamente interni», ebbene tutti preferiscono farselo sfuggire.

Solitamente il 9 novembre passa inosservato; oppure, quando proprio sono scadenze decennali a che cosa lo riducono, ci ricordiamo nel 2019 il trentennale? «Sì – dicono – è crollato un muro ma altri ne sono sorti, il muro della Cisgiordania, il muro al confine col Messico, il muro di Ceuta e Melilla …». Tutti equipollenti manufatti edilizi, una questione merceologica. Così è elusa la reale funzione del “Muro antifascista” (il nome ufficiale) che lo allontanava abissalmente dai tre citati: che cioè, a prescindere da materiali impiegati o modalità operative (reticolati, controlli di polizia, fiumi o altri impedimenti naturali), è nella funzione specifica la diversità: impedire al proprio popolo l’unica scelta che ormai aveva, quella di fuggire. Perché peculiare del comunismo è che l’oppressione e la violenza dello Stato si esprime verso lo stesso suo popolo.

Ma neppure dei totalitarismi si vuol parlare, il 9 novembre. Perché è più comodo affrontarli il 27 gennaio e il 25 aprile. A gennaio, sulla scia dell’oggettivo avvenimento che Auschwitz sia stato aperto dall’Armata rossa si omette il seguito, che cioè l’Europa dell’est, liberata dal nazismo, ripiombò in un totalitarismo non migliore (settemila tedeschi sono stati eliminati nel campo di Buchenwald stesso, dal 1945 al ’50). Buono anche il 25 aprile perché così i totalitarismi sono solo quelli neri, possiamo chiudere, abbiamo svolto il programma di quinta. E invece una più seria conoscenza dei regimi totalitari ci eviterebbe, per esempio, certe cantonate di fronte al conflitto asimmetrico Israele-Hamas. Quest’ultima, come pure le altre organizzazioni e gli Stati islamisti, ha molti dei caratteri dei sistemi totalitari, pur con le dovute varianti legate all’islam e alle peculiarità del mondo arabo.

1) Entrambi sono militaristi, orientati alla guerra, profondono enormi risorse per l’armamento a fronte di povertà e sacrifici per la gran parte della popolazione. Abbiamo tutti visto in queste settimane una sofisticatissima rete di cunicoli, meravigliosamente attrezzata, tutta a scopo offensivo, un lavoro pervicace di anni; mentre la gente soffriva delle carenze basiche. La Corea del Nord è uguale: un’avanzata ricerca nel campo missilistico e degli armamenti offensivi fa contrasto con obsolescenza dell’industria, penuria di beni di consumo fino alla miseria e alle carestie (sono noti e ammessi dal regime i casi di cannibalismo). E chi non ricorda la poverissima Albania dove il cemento era destinato ai minibunker perché una martellante propaganda asseriva dover essere tutti pronti a una guerra imminente.

2) Tanto bravi nella guerra, quanto incapaci nella pace, ossia disastrosi nelle politiche economiche.

3) Una illimitata disponibilità a sacrificare i propri uomini in guerra e le proprie popolazioni civili: sacrifici economici, scudi umani sono sotto gli occhi di tutti. Farsi vanto della quantità dei morti propri. Ho Chi Minh a un giornalista statunitense: «Potete uccidere dieci del mio popolo per la morte di ogni vostro soldato; ma anche così voi perderete e io vincerò». Mao Ze Dong al summit dei partiti comunisti, Mosca 1957: «Io sono disposto a sacrificare le vite di 30 milioni di cinesi per la causa della rivoluzione mondiale».

4) E poi tenere il popolo in uno stato, anche psicologico, di costante mobilitazione, il nemico sempre alle porte. Raccontano i più anziani fra gli italiani che erano rimasti in Istria, che negli anni ’50 passavano con frequenza i carri armati verso il confine e tutta la propaganda parlava di una incombente guerra con l’Italia. A Cuba i manifesti e i dipinti murali cercano di tenere artificiosamente alta la tensione verso gli Usa ed è patetico di come propongano la Rivoluzione (concetto che di per sé connoterebbe un processo transitorio, per benefico che possa essere), come qualcosa di incessante e perpetuo: una contraddizione in termini. Sotto questo profilo Israele è la dimostrazione più didattica di una democrazia occidentale: nonostante sia lo Stato al mondo coi confini più insidiati, cerca di farlo pesare il meno possibile ai cittadini (come pure ai turisti); poi, quando ce n’è bisogno, li richiama e ognuno sa dove è il suo posto. Un ethos di pace, l’esatto opposto della psicosi della mobilitazione permanente.

5) «Ovunque». Vi sarebbero molte altre analogie che omettiamo per ragioni di spazio. Solo si voleva evidenziare come sia ignoranza o malafede interpretare il comportamento dei soggetti politici totalitari (Stati, organizzazioni o partiti che siano) come reattivo, secondario rispetto ad un comportamento altrui: no, essi agiscono così per statuto, per programma, per enunciazioni che metodicamente poi attuano. Non cadiamo nell’inganno: perché pensare le Foibe solo come conseguenza della repressione fascista quando liste di proscrizione e fosse comuni ci sono state ovunque il totalitarismo comunista abbia preso il potere? «Ovunque», l’avverbio che ripeté due volte N. Bobbio nella famosa intervista sul comunismo a “L’Unità” del 3 aprile 1998.

Merita ancor oggi ripercorrere la meravigliosa storia di quella rivoluzione pacifica, del ritorno alla libertà dei popoli dell’Est: conoscere il ruolo e i meriti non solo di M. Gorbacev ma soprattutto di Ronald Reagan e Giovanni Paolo II. Abissale differenza con le primavere arabe (c’entrano nulla le due differenti religioni e culture che le hanno sottese?). Studiare i totalitarismi del passato: affinché, scremando dalle varianti, si colgano le affinità con i totalitarismi del presente. È anche ciò che raccomanda la Risoluzione del Parlamento europeo 19 settembre 2019. Essa fra l’altro ci ricorda di onorare il 23 agosto, Commemorazione delle vittime di tutti i totalitarismi. E la triade si completa con Legge dello Stato italiano 15 aprile 2005 n. 61.

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