Non dobbiamo smettere di “osare” la speranza

Il coronavirus ci ripresenta con violenza la drammaticità del reale. Chissà se porterà via tutta una serie di interpretazioni violente e chiuse

Caro direttore, rieccomi a scriverLe dal mio Spielberg milanese, con la compagnia del grande tricolore che garrisce gagliardo dalla caserma di fronte a casa mia. Vivere vicino a una caserma ha i suoi privilegi: sono cresciuto accompagnato dall’inno di Mameli suonato due volte al giorno, quotidianamente e puntualmente, talvolta intercettando per strada la cerimonia dell’alzabandiera o del suo ammainarsi. In quelle occasioni mi sono sempre fermato a omaggiare la nostra bandiera, un po’ perché nel lessico familiare, un po’ per sensibilità personale. E Le confido che, se mi sento preso dal magone nel vedere le strade di Milano deserte, mi commuovo e sorrido nello scorgere per la prima volta esposti tanti tricolori non in occasione di una partita di calcio.

Un sistema già provato e in decadenza – il nostro – sta ricevendo l’impatto di una botta tremenda e planetaria, difficile ora da mappare e decifrare, che, si spera, almeno ci induca a riflettere. E qui riflettere significa intendere, comprendere, ragionare sul serio, soffrirne persino, e non erudizione o, peggio, spocchia e posa. Non si tratta, per capirci, dei consigli alla lettura che continuano a giungerci da eburnei intellettuali che raccomandano di rileggere Proust, Musil, Mann, Dostoevskij, proprio ora, nella condizione più che cupa che stiamo attraversando. Quanta vanità! Si badi, poi: rileggere, addirittura, la Recherche o un tomo respingente come l’Ulisse. Mi chiedo, oltre al senso del reale, quanto queste persone difettino di sincerità. E, se non fosse che la reazione a tutto ciò si declina sempre in uno stolido e funesto elogio all’ignoranza crassa e all’insensibilità, s’imporrebbe di abbandonare costoro al loro destino e a un liberatorio senso del ridicolo (a proposito, La informo che mi sto avventurando nella lettura del riedito Paperino e il Conte di Montecristo). Un rabbino medievale, a ragione, ammoniva che intelligenza e umiltà stanno tra loro come la fiamma alla brace; Carlo M. Cipolla ha poi specificato il resto nella sua deliziosa gemma sulla stupidità umana e le sue regole, e chi ha orecchie per intendere intenda.

Riflettere, dicevo, significherebbe mettere in relazione la nostra mente con il reale, affrontare il reale, assumere il reale, anche con un principio di carità. Noi occidentali contemporanei abbiamo ereditato purtroppo una sensibilità intellettuale, intrisa di ideologie, talora già frantumate, che si è sempre più dimostrata refrattaria al reale, oppure demiurgica rispetto a esso. Forse, occorre dirlo, gli intellettuali contemporanei sono più in crisi persino dei politici delle nostre democrazie liberali (sic). Il progressismo spinto, anche nella forma censoria, dissimulante e ottundente del politically correct, ne è stato l’ultimo decadente epigono, accompagnato dal suo odioso e volgare correlativo: il vaffa e la cultura della pancia, sempre più avanzante verso l’intestino crasso e altre amenità. Il progressismo illiberale è riuscito a produrre tutto questo, nelle università statunitensi e in politica. Quanto ai reazionari, chiaramente non sono praticabili. Altra cosa, invece, sono i conservatori, che lo si sia o meno.

Occorrerà riflettere con acribia sul dato empirico, sul fatto inedito, della sospensione, rapidissima e imperiosa, delle nostre libertà, che costituisce un precedente, non solo in Italia ma in tutto il mondo libero. Siamo tutti, più o meno scientemente, allarmati dall’ampia sospensione della nostra garantita libertà di movimento fisico, ossia di quella potente, arcaica e primaria forma di libertà umana, su cui si pensano e modellano tutte le altre, incluse quelle di pensiero e parola: si tratta della preliminare urgenza delle libertà negative, nella loro materiale concretezza, rispetto a ogni possibile conseguente libertà positiva. Ed è chiaro che questo fatto, specie per i milioni di persone che abitano nei nostri “loculi” urbani (immaginatevi un monolocale) risulti più che stressogeno e debilitante, ancorché in larga misura inevitabile.

Si tratta, dicevo, di un precedente che, comunque lo si voglia leggere, pone in essere fondati motivi di inquietudine ed esige pubbliche e sorvegliate riflessioni e vaglio. Il fatto stesso che taluni vogliano, per colpa di alcuni irresponsabili trasgressori -per sé e per il prossimo -, ulteriormente inasprire i provvedimenti sulla residua libera circolazione, a discapito di tutti, tradisce una visione del mondo, politica e giuridica, davvero poco confortante e in nuce dispotica: quella che non ha mai davvero recepito e apprezzato la grande civiltà della “presunzione di innocenza” (rispetto alla “presunzione di colpevolezza”) e che è disposta a sanzionare tutti per colpa di alcuni. Anche se ne capisco le impellenti urgenze.

E, ancora, ci siamo scontrati, sperimentandola su noi stessi, per la prima volta da decenni, con la forza dello Stato e, dunque, con il principio di autorità, in un mondo culturale e politico non abituato a misurarsi con esso e che ne ha invece voluto per decenni negare l’esistenza, demonizzandone ogni declinazione: dal patriottismo istituzionale fino alle pedane delle cattedre o al riconoscimento di un canone di Classici. Per converso, occorrerà una riflessione serissima sull’eccessiva e conturbante fascinazione con cui taluni, trasversalmente, salutano, parzialmente rivalutandoli, i metodi e il sistema cinese: un regime totalitario e imperialista, incline alla menzogna di stato e alla tacitazione violenta del dissenso, al controllo genocidario delle nascite, alla repressione di ogni libertà, come l’attuale traversia ben dimostra, nonostante un Presidente di una regione italiana abbia vergognosamente definito tale status di cose come “metodi terapeutici” o un nunzio apostolico abbia affermato che si tratterebbe della migliore concretizzazione del Vangelo e della dottrina sociale della Chiesa.

Nessun esponente delle democrazie liberali, tanto più se preoccupato per l’aspetto democratico e sociale, può ammiccare a simili prospettive. Se lo dovesse fare, come già purtroppo accade con casi illustri, occorre porsi seri interrogativi. La facile seduzione per l’efficientismo interventista e dispotico di uno Stato totalitario (che è una cartina di tornasole circa l’identità di chi ne sarebbe qui un potenziale fautore, da destra o da sinistra), dipinto ora persino come “benevolo” perché “ci aiuta” (!), a fronte di diffusa sfiducia per le democrazie liberali -come tali procedurali, bilanciate dal dissenso e con sistemi istituzionali di contrappesi- è per me motivo di terrore e, comunque, una sconfitta. Una disfatta causata in primis dalla colpevole mediocrità e ignoranza trasversali alla classe dirigente del mondo occidentale, il cui annichilimento arretra ad alcuni decenni. Il mondo “culturale”, dalla teologia alla scienza politica, ne è più che corresponsabile.

Occorrerà riflettere, ammesso che si sia ancora in tempo, sull’ennesimo, epocale e clamoroso fallimento dell’Unione Europea (oltre a quelli che da anni si susseguono in Grecia), che ne uscirà ancor più indebolita e dispari, per cercare di ripensare radicalmente questo strano golem, a oggi un organismo senz’anima, dominato dai plutocrati di un “IV Reich”, senza volersi far sedurre dalle estemporanee dichiarazioni apparentemente benevole di talune maliarde. E, al riguardo, occorrerà una riflessione sulla crisi costitutiva dell’impianto liberale in economia, pur assunto, come ritengo, che l’esperimento del capitalismo liberale a oggi permanga il migliore finora condotto dalla nostra specie, a fronte di altri che si sono rivelati concretamente ancor più intolleranti, iniqui, repressivi, empi o addirittura dei mali assoluti, come nel caso di nazismo e comunismo. Ma non vederne gli evidenti scompensi e i disastri, e non interrogarsi in materia (cosa che già avviene, ma che il momento presente sollecita con inaudita e rinnovata urgenza), significherebbe a mio avviso tradire lo spirito più autentico e positivo del liberalismo stesso.

Circa l’Italia che verrà, occorrerà, pur con il nostro spirito “disordinato” e “comunale” e pur con le nostre benedette intemperanze e contraddizioni, che restano una risorsa, anche molta serietà, specie per quel che riguarda la politica. La sanità pubblica è stata smantellata da governi di destra e di sinistra, spesso umiliando i territori di aree difficili e talora disagiate (tutto l’arco alpino e tutto l’arco appenninico, per esempio, che in Italia non è certo poco…) con la chiusura delle strutture ospedaliere che le servivano, senza però un ripensamento e una riqualificazione efficace, funzionale e sostenibile. Paghiamo tutto questo, anche in ragione delle misure di austerità richiesteci, anzi imposteci, in questi anni dalla Ue.

Ma, ancor più, e lo si vede drammaticamente oggi, occorre ripensare il nostro sistema scolastico. La riforma migliore, che creò una scuola di eccellenza e competitiva a livello mondiale, fu (nonostante tutto) quella di Gentile, certamente da aggiornarsi, e, forse, da contemperarsi con il progetto alternativo e visionario del matematico e filosofo ebreo Federigo Enriques. Le riforme condotte dai vari governi repubblicani di destra e di sinistra, farraginose e con immensi tagli, hanno prodotto unicamente una popolazione giovane più fragile, meno istruita e più povera. A ciò si aggiungano istituti scolastici spesso inadatti o cadenti; la politicizzazione indebita degli insegnanti; e gli stipendi miserrimi per il personale docente, non suscettibile così di serie verifiche, di aggiornamenti congrui e di giusta valorizzazione e meritocrazia. Occorre cambiare rapidamente rotta, per salvarci tutti.

Forse, ed è un motivo di speranza, il coronavirus ripresentandoci con violenza la drammaticità del reale, porterà via tutta una serie di detriti, di occhiali deformanti della realtà, di interpretazioni violente e chiuse della suddetta, di pose, di finti timori, obbligandoci a pensare il nuovo con serietà e a conservare il nostro eccezionale retaggio.

In questi giorni si rincorrono nelle menti e nei cuori di tutti noi ossessivamente mestizia e compassione, desolazione e speranza, interrogativi laceranti e facezie, timori e inquietudini, isolamento e appartenenza. E, d’altronde, scriveva il Poeta che l’essere umano “senza la speranza non può vivere, come senza amor proprio. La stessa disperazione ha in sé la speranza… La disperazione non esisterebbe senza la speranza e l’uomo non dispererebbe se non sperasse”. Noi abbiamo strutturalmente bisogno di possibilità e, dunque, di alternative. Osiamo pensarle.

Vittorio Robiati Bendaud

Foto Ansa

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