Perché non possiamo censurare l’aiuto offerto alla mamma di Enea

Ha ragione chi dice che non si può fare di un bambino affidato alla culla per la vita uno show. Ma sbaglia chi si fa avanti per non lasciare sola sua madre? La paura del giudizio e il positivo scatenato da un precedente

La culla per la vita alla clinica Mangiagalli di Milano (foto Ansa)

«Se offrire aiuto diventa un problema forse dovremo farci qualche domanda». Ha ragione chi dice che non si può fare di un bambino affidato alla culla per la vita uno show. Ma sbaglia forse il primario di neonatologia della Mangiagalli Fabrizio Mosca quando, ricordando che la legge le dà dieci giorni per ripensarci, promette alla mamma di Enea che non sarà sola («Se ci ripensa, noi la aiuteremo»)?

Enea, affidato alla culla per la vita

Di Enea è stato scritto tutto, soprattutto è stato scritto che è stata violata la sua privacy ed è stata violata l’autodeterminazione della donna che ha scelto di affidarlo alla culla per la vita della Mangiagalli di Milano la domenica di Pasqua. Insieme al piccolo, la donna ha voluto lasciare una lettera di cui sono state divulgate alcune righe: poche ma significative del dolore («la mamma mi vuole bene ma non mi può seguire») e della luminosa fiducia che questa donna nutriva per le persone a cui stava affidando un figlio.

Una fiducia che per molti è stata tradita dal clamore mediatico: la lettera non doveva essere divulgata, il nome del bambino (tutto quello che sarebbe rimasto al piccolo delle sue origini) nemmeno, nessuno avrebbe dovuto rivolgersi alla donna dai media. Tra questi “molti” – diciamolo subito – va fatto un distinguo: c’è chi chiede silenzio per tutelare uno strumento preziosissimo come la culla per la vita e il gesto d’amore di chi ha deciso di affidare e non di abbandonare, uccidere o abortire un bambino. E c’è chi chiede silenzio perché nelle numerose offerte di aiuto non vede che una violazione dell’insindacabile scelta di una donna di non essere madre.

Ezio Greggio non è il Cav della Mangiagalli

Le cose vanno dette: non è Ezio Greggio né il suo goffo appello alla mamma di Enea («torna indietro, ti aiuteremo, Enea ha bisogno di una mamma vera», frasi che non potevano che generare scompiglio e indignazione tra genitori adottivi o influencer più ricettivi alle parole di un vip sulla genitorialità biologica che al fatto stesso di Enea) la misura di quanto è accaduto a Milano. Dove un sacco di famiglie si sono fatte avanti per avere il bimbo in affido o adottarlo, un sacco di persone si sono fatte avanti per aiutare la sua mamma a restare con lui. Solo tifoserie?

«Cara mamma di Enea se ci ripensi noi siamo qui pronti ad aiutarti. Rivolgiti al nostro Centro di Aiuto alla Vita Mangiagalli scala B terzo piano. Non sei sola», scrive il meraviglioso Cav della Mangiagalli, zero retorica e decine di migliaia di donne e bambini aiutati. Anche Alessandra Kustermann, storica ginecologa e alfiere dell’autodeterminazione alla Mangiagalli di Milano, ha invitato espressamente la città a non lasciare sola questa mamma «per aiutarla a superare le difficoltà che la portano a pensare che suo figlio starà meglio lontano da lei, piuttosto che con lei». Chi può dire che questa mobilitazione – innescata da un primario, che immaginiamo conosca tutto il contenuto della lettera, o da chi ha grande e concreta conoscenza di situazioni analoghe – sia per la mamma di Enea minaccia e non conforto in queste ore di dolore?

Un’offerta di aiuto diventa un giudizio su una madre

Non è un’ipotesi contemplata nei “quartieri alti” dei social network, dove prima della violazione della riservatezza (che pure ha senso richiamare nel caso delle culle per la vita – ma da che pulpito!) si ha orrore di una cosa sola: il giudizio. Nel villaggio virtuale l’offerta di aiuto a una mamma è un giudizio su di lei. Una minaccia alla sua autodeterminazione. Come si stesse parlando di aborto, una mano tesa o un invito a ripensarci diventa sinonimo colpevolizzazione, gogna mediatica, donna alla berlina. Fino alla conclusione: l’attenzione a Enea non si tradurrà in “meno abbandoni” ma “più cadaveri nei cassonetti”.

È vero, non c’è stato silenzio. C’è stato solo un nome, Enea, e brandelli della lettera della sua mamma, ma è bastato a far rumore perché avvenimenti come Enea non capitano tutti i giorni (tre in sedici anni di culla della vita a Milano). E non lasciano muti.

Il positivo scatenato dal piccolo Luigi

«Strillava come fosse il primo bambino venuto al mondo», raccontò don Antonio Ruccia a Tempi quando il peso caldo del piccolo Luigi nella culletta per la vita di San Giovanni Battista, a Bari, attivò il dispositivo collegato al suo cellulare una pigra mattina di luglio del 2020. Luigi era lì, annidato in culla in una tutina bianca azzurra, con un biglietto con il nome, la data di nascita, l’indicazione che era stato allattato al seno e un messaggio per lui: “Mamma e papà ti ameranno per sempre”. La storia era circolata subito e in un batter di ciglia la comunità si era stretta incondizionatamente attorno al piccolo. La sua storia fece il giro del mondo (letteralmente: le tv di mezza Europa raggiunsero la chiesa di San Giovanni Battista), scattò la corsa all’affido e all’adozione, ma anche l’appello ai genitori: «Qualora volessero fare un passo indietro, noi ci siamo, siamo qui per onorare la promessa custodita in quella culla termica: custodire la vita sempre, quella di Luigi e della sua mamma e del suo papà che lo ameranno “per sempre”».

Nessuno denunciò l’attentato alla privacy – e stiamo parlando del rione Poggiofranco di Bari, non del centro di Milano. Molte famiglie, colpite dalla storia di Luigi, si sarebbero in seguito aperte «all’accoglienza e all’affido», in una comunità paralizzata dalla paura del Covid il vagito Luigi avrebbe «segnato giorni nuovi, strappandoci dal niente e dalla paura di un virus invisibile», ci aveva detto don Antonio. Luigi nella culletta termica aveva posto degli interrogativi ma, soprattutto, aperto nuovi squarci di vita. Ci era voluto un nome e un brandello di lettera però: perché escludere che questa umanizzazione possa strappare altre mamme dal gesto estremo e convincerle che l’alternativa ad abbandono, aborto e infanticidio, c’è ed è un bene, il bene che tanti vorranno al loro bambino?

Le domande censurate su Francesco Alberto

Quando Francesco Alberto è stato lasciato nudo e insacchettato con cordone ombelicale e placenta vicino a un campo agricolo di Paceco, tra «spine, topi, siringhe, animali», una sola parola unì giornali, social network e Pd trapanese: «Non giudicare», «è fondamentale astenersi dal giudizio», «non dobbiamo giudicare chi abbandona un creatura». Meglio piuttosto ricordare che Francesco Alberto era la prova vivente che la 194 non funzionava, e che se c’era un colpevole, questo era l’obiezione di coscienza nemica dell’autodeterminazione.

Nessuno, per paura di giudicare, si chiese se era stato fatto di tutto per impedire che finisse buttato vivo come immondizia nel sacco di plastica tra gli animali della campagna trapanese. A cominciare dal parto in anonimato in ospedale per finire all’affido in un luogo sicuro: poteva sua madre raggiungere una culla per la vita che avrebbe salvato il bimbo e lei stessa dal più terribile dei reati?

Una semplice verità poco riservata

La risposta è no: esistono solo sessanta culle in Italia, 10 delle quali si trovano in Lombardia. Anche se costano poco (6mila euro per approntarne una, secondo la proposta di legge a cui sta lavorando Ai.Bi., per renderne obbligatoria l’istituzione in ogni comune) non esiste comunicazione sul valore delle culle per la vita. Ci accorgiamo che esistono solo quando le aziona il corpo caldo di bambini come Enea.

Nessuno rintraccerà la sua mamma né lei tornerà alla Mangiagalli perché glielo chiede il primario, tanto meno Ezio Greggio. Domani i giornali smetteranno di parlare di Enea e i social network di preoccuparsi dell’autodeterminazione della sua mamma. Una mamma travolta dal clamore mediatico in cui è passato insieme a tanti errori anche la più semplice delle verità: Enea sta bene e ci sono un sacco di persone pronte a prendersi cura di lui. E anche di lei. Non sarà un messaggio riservato, ma chi ha detto che suoni come condanna e non come speranza per altri bambini come Enea? Possiamo farci queste domande?

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