Non basta dire «pace o condizionatore», senza sostegni alle imprese si va verso la recessione

L’Europa che non è in grado di fare a meno del gas russo, l’eccesso di ottimismo sull’impatto economico delle sanzioni, gli effetti disastrosi dell’aumento dei prezzi. Parla Gianclaudio Torlizzi

Il presidente del Consiglio Mario Draghi nella sala Polifunzionale durante conferenza stampa al termine della riunione del Consiglio dei Ministri del 6 aprile (foto Ansa)

Ogni generazione ha la sua retorica di guerra e se la generazione dei nostri nonni, quantomeno dei quelli britannici, si è unita intorno al celebre «sangue, fatica, lacrime e sudore» di Winston Churchill c’è qualche possibilità che i posteri si ricordino di noi anche per la domanda posta dal premier Mario Draghi durante l’ultima conferenza stampa: «Preferisce la pace o il condizionatore acceso?».

È il segno dei tempi: di fronte alla crisi ucraina, l’opinione pubblica italiana si muove con il ritmo di un metronomo e oscilla fra la pietà verso i civili ucraini, gli appelli alla pace e i piccoli e grandi conti di bottega. Il prezzo delle materie prime aumenta, l’inflazione galoppa e se il freddo in alcune zone ancora non molla, di sicuro il caldo incombe e pensare di sopravvivere senza i comfort a cui siamo abituati forse un poco spaventa. Ne abbiamo parlato con Gianclaudio Torlizzi, fondatore di T-commodities ed esperto di energia e materie prime.

Torlizzi, cominciamo dalla battuta della settimana: preferisce la pace o il condizionatore acceso?

La questione, posta in questi termini, mi sembra un po’ semplicistica. Il punto è che l’Europa oggi non è effettivamente in grado di fare a meno del gas russo, a meno che non voglia assistere a una recessione anche piuttosto profonda della propria economia. Temo che l’approccio adottato dal presidente del Consiglio tradisca una certa sicurezza sull’ipotesi che un embargo totale possa avere un impatto leggero sull’economia italiana.

Da cosa nasce questo eccessivo ottimismo?

Leggo da giorni report di banche e agenzie di rating che tranquillizzano sull’impatto dell’embargo. Credo che alla base di tutto questo vi sia una assenza profonda di consapevolezza riguardo agli effetti che si generebbero: non è maturata negli anni una cognizione, in Italia e in Europa, del mercato delle materie prime e della logistica e del suo funzionamento.

Insomma ci siamo fatti trovare impreparati anche da un punto di vista analitico.

Siccome il comparto delle commodities non è mai stato un problema, manca la sensibilità in materia. Un embargo totale avrebbe il potere di provocare il mancato controllo sui mercati, con il prezzo del gas che potrebbe spingersi a livelli inimmaginabili. Io ho ipotizzato i 500 euro a megawattora ma si tratta comunque di una stima conservativa perché la media da inizio anno è superiore ai 100 euro, rispetto ai 9 del 2020 e ai 49 euro al megawattora del 2021. Se il Pil italiano è in discesa dello 0,5 per cento in questo trimestre, con un prezzo del gas di 101 euro al megawattora, pensiamo a quale potrebbe essere l’impatto di un prezzo molto più alto.

Quali effetti sta avendo l’aumento del prezzo dell’energia sulla nostra economia?

Oggi assistiamo a un progressivo sfilacciamento tra il prezzo finanziario della materia prima e quello che le industrie le riconoscono come tale. Questa forte volatilità si va sostanziando in volumi sempre più bassi che il mercato non riconosce più come affidabili. Con le sanzioni quindi abbiamo un duplice effetto: da un lato la restrizione dell’offerta, dall’altro un discorso sistemico e più pericoloso che si manifesta col malfunzionamento finanziario del mercato delle materie prime con ripercussioni pesanti anche sul mercato della logistica.

Insomma le sanzioni ci si stanno ritorcendo pesantemente contro e questo ci riporta alla provocazione di Draghi: pace o condizionatore.

Non sono un politico, non do giudizi di merito sull’opportunità di applicare delle sanzioni. Dico però che il loro impatto è pesante e va tenuto da conto, dando il via a piani di sostegno per le imprese e le fasce di popolazione più deboli. Siamo al principio di una fase particolarmente dura e rischiamo un’instabilità sociale molto forte che andrà ad acuirsi con la spinta migratoria da oriente ma anche dal Nord Africa. L’indice Fao dei prodotti alimentari ha raggiunto un nuovo massimo, questo porterà a un’instabilità che finirà per aumentare i flussi migratori dall’Africa che si andranno a sommare a quelli dall’Ucraina. La strategia russa sembra essere quella di distruggere le infrastrutture, quasi volessero impedire agli ucraini di tornare alle loro case e così facendo disarticolare la politica europea.

In passato la strategia europea nei confronti dell’inflazione si è basata quasi esclusivamente sulla politica monetaria: è uno strumento ancora valido?

Sarebbe un grave errore pensare di stroncare l’inflazione aumentando i tassi d’interesse. Siamo in una situazione diversa rispetto ai primi anni Ottanta, oggi l’Occidente ha perso il controllo delle politiche di prezzo sul mercato delle materie prime e la politica monetaria rischia di produrre un effetto ulteriormente recessivo sull’economia. È importante a questo punto dotarsi di una politica fiscale che incentivi le aziende ad aumentare la produzione: oggi l’inflazione non si combatte con i tassi ma favorendo la produzione delle imprese.

Se le cronache hanno ragione, però, i russi si stanno ritirando e questo potrebbe aprire ad un’insperata quanto veloce pacificazione, no?

Nel mio scenario ho scritto che ci sono il 40 per cento di probabilità che il conflitto finisca a luglio e il 60 che finisca nel 2023. Durerà molto e alimenterà fortemente l’inflazione, senza dimenticare i forti deflussi che sto registrando su Taiwan e che sembrano anticipare qualcosa. Non mi sorprenderebbe se, dopo le elezioni cinesi di novembre, partisse anche l’incursione su Taiwan. È quella che lo storico Niall Ferguson ha previsto come una possibile terza guerra mondiale.

La Cina è l’elefante nella stanza in questa situazione, ma non è chiaro quale vantaggio possa avere la Russia a legarsi stabilmente alla Cina che diventerebbe il suo principale, se non unico, cliente.

È vero che money rules the word, i soldi governano il mondo, ma sbagliamo a voler leggere tutta questa storia con la lente della convenienza economica immediata. L’obiettivo strategico di Putin, per quanto esecrabile possa essere, è quello di avere uno sbocco a mare in una zona che la Russia ha sempre anelato. L’operazione in Ucraina nasce da questo e dalla volontà di accaparrarsi le risorse di cui il paese è ricco oltreché dalla considerazione che, per quanto l’Europa si possa sganciare dal gas russo, né gli Stati Uniti né altri fornitori potranno compensare rapidamente.

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