No Tav, se il movimento diventa «terrorista»

Corruzione No Tav. O di come un ventennale passatempo per professionisti della rivolta si è trasformato in una specie di «mafia senza pizzo». O peggio.

«Palestra per i violenti di tutta Europa». Così definiva la Val di Susa, alla vigilia dell’ultimo assalto al cantiere dell’alta velocità a Chiomonte, nella notte tra il 19 e il 20 luglio, il senatore democratico Stefano Esposito, uno dei più tenaci sostenitori della realizzazione del nuovo collegamento ferroviario tra Torino e Lione. Grande opera a cui, da vent’anni o quasi, si oppone l’esercito dei No Tav. Il movimento ha cambiato più volte fisionomia, tra contaminazioni e avvicinamenti tattici a forze parlamentari ed extraparlamentari. Da tempo il procuratore generale di Torino Gian Carlo Caselli, riferendosi a quei contestatori, parla di una «escalation della violenza». D’altronde, tra assalti sarcasticamente ribattezzati “passeggiate notturne al cantiere” e accoglienza all’interno del movimento di gruppi dell’extrasinistra, di autonomi e di anarchici di varia sfumatura, gli elementi ci sono tutti.
Ora c’è anche l’accusa di terrorismo, formalizzata dai pm Andrea Padalino e Antonio Rinaudo della procura di Torino in riferimento agli scontri presso il cantiere del 10 luglio scorso.
Lunedì 29 sono scattate diverse perquisizioni della Digos, in Valle e a Torino, con la consegna di avvisi di garanzia per «attentato per finalità terroristiche o di eversione». Nella notte del 10 luglio un gruppo di attivisti travisati si erano avvicinati alle reti lanciando bombe carta e petardi, costringendo le forze dell’ordine a intervenire per respingerli. Durante il sopralluogo eseguito per la messa in sicurezza dell’area dopo la dimostrazione, erano stati rinvenuti diversi «artifizi pirotecnici inesplosi e petardi. Modalità che configurerebbero profili di un vero e proprio attentato terroristico o condotto a fini eversivi». In base all’articolo 280 del codice penale, le pene che possono scattare in caso di condanna degli indagati vanno da sei a vent’anni di reclusione.

Cosa sta succedendo?
Ma cosa accade in questo lembo di terra, da sempre corridoio di transito tra Italia e Francia? Cosa succede in questa valle disseminata di villette e “abbellita” da una lunga sequela di capannoni vuoti, tanto da spingere qualche osservatore antipatizzante a far notare che l’attenzione all’ambiente qui è quanto meno a corrente alternata? È un fatto che alla Val di Susa guardano come a un laboratorio di lotta quanti si propongono di trasformare la crisi economica in un immenso innesco per il conflitto sociale. Una valle che si è data un bandiera (bianca con il treno crociato in rosso) e – secondo i leader della protesta – il compito di assestare una spallata al “sistema”. Incassando il grave avallo dei grillini, ma anche degli avanzi della rossa sinistra partitica, che quel vessillo “trenocrociato” hanno scelto di abbracciare. 
Il governo di pacificazione, tenacemente voluto da quel presidente Napolitano che qui chiamano con spregio Re Giorgio, manco a dirlo, è un altro dei grandi nemici. La concretizzazione del «partito unico del cemento e del tondino» (ultima evoluzione del curciano «Stato Imperialista delle Multinazionali»?).
Cosa ha reso plausibile questa sintesi tra la più medioborghese delle sindromi Nimby e i linguaggi e i metodi della guerriglia urbana? Non si è mai registrata – occorre dirlo – una dissociazione del grosso del movimento (ciò che ne rimane: sono lontane le decine di migliaia di partecipanti delle manifestazioni di qualche anno fa) da quelli che appaiono sempre meno come estremisti alle prese con l’entrismo e sempre più come avanguardie a cui è appaltata la violenza. Lo slogan dei trenocrociati è sempre stato «Siamo tutti No Tav». All’indomani dell’ultimo assalto al cantiere, quando una pattuglia di amministratori locali ha violato la “linea rossa” decretata a sua protezione, l’anziana militante Marisa Mayer, che in passato si incatenò anche a quelle reti che i manifestanti battevano, ha detto: «Siamo tutti No Tav, anche i ragazzi che vengono da fuori, se non ci fossero loro noi non potremmo tornare in questi boschi. Mi hanno aiutato molte volte, anche portandomi in spalla, tutti liberi!».
In Val di Susa si è tutti No Tav, ecco. Non c’è più un criterio per discriminare un metodo dall’altro. L’appartenenza tutto giustifica, la battaglia tutto monda. Il male sono sempre “gli altri” – i politici, le forze dell’ordine, ma anche i lavoratori e gli amministratori che hanno scelto il confronto. Si arriva a dire che «c’è lavoratore e lavoratore». Ci sono stati operai presi a sassate. Le aziende impegnate nella realizzazione del tunnel di Chiomonte vengono bollate come “collaborazioniste”. E non si contano i mezzi bruciati, ma per il leader dei contestatori Alberto Perino «i mezzi si uccidono da soli come i bonzi buddisti, si vede che si vergognano del lavoro che fanno. È un buon segno» (si cerchi in rete il suo discorso di apertura alla manifestazione di domenica 28 luglio).

Evasori fiscali, però idealisti
La Val di Susa No Tav non sembra avere la forza per distinguere il legittimo dissenso verso un’opera dall’assalto allo Stato. È un cortocircuito. Tutto, non solo nei discorsi dei leader trenocrociati ma anche nelle parole dei sindaci più intransigenti, viene come capovolto. In una recente conferenza stampa, il sindaco di Avigliana Angelo Patrizio ha ammonito «i giornalisti e tutti coloro che evidenziano irresponsabilmente i motivi di contrapposizione e affrontano l’opposizione al Tav, non nel merito, ma come una questione di ordine pubblico».
Lo stesso sindaco che da due anni ospita nelle strutture del suo Comune la festa di Radio BlackOut, l’emittente dell’autonomismo torinese. Una festa a base di concerti con tanto di biglietti d’ingresso e ristorazione (per tacere di altri commerci) ma nessuna possibilità di riscuotere i diritti d’autore, visto che l’agente Siae è stato cortesemente invitato a rivolgersi altrove perché «è contrario alla nostra visione pagare imposte allo Stato che non riconosciamo». 
Questa Valle è diventata un rischioso “parco giochi” in cui tanti figli della stanca borghesia che trovano dimora nei centri sociali vengono a giocare alla rivoluzione. Ma questo non infastidisce minimamente chi, tra i No Tav, si è a lungo definito “gandhiano”. «Quando decidiamo che una manifestazione dev’essere pacifica, questa lo è», ha detto sempre Perino prima dell’ultima marcia. E quando al contrario l’esito di una manifestazione è violento, il decisore non è forse il medesimo? Sono le uscite come questa che danno consistenza all’accusa più pesante rivolta ancora dal senatore Esposito all’ala dura dei No Tav: «mafia senza pizzo».
In proposito l’allarme sta diventando serio, nel fronte dei sindaci che hanno scelto il dialogo e che ora chiedono ai presidenti del Senato e della Camera Piero Grasso e Laura Boldrini di venire in Valle per incontrarli insieme agli imprenditori. L’appello è partito dal primo cittadino di Sant’Antonino di Susa, Antonio Ferrentino. Già leader dell’opposizione al primo progetto Tav nel 2005 e oggi sideralmente distante dal movimento, Ferrentino «da meridionale» denuncia: «Azioni come quelle che capitano in Val di Susa sono tipiche della criminalità organizzata. Per combatterle le istituzioni devono scendere in piazza, con una marcia, come quelle che Libera fa contro la mafia, per difendere legalità e democrazia».

Quel paragone con la Resistenza
Altri sindaci, però, rovesciano completamente la visione. Come sempre l’ideologia rende sordi alle ragioni dei “nemici”, fino a spingere molti (tutti) nel movimento a parlare di militarizzazione. E di nuova resistenza contro la medesima. Come spesso capita, la verità salta fuori incidentalmente, quasi come un lapsus. Scrive Claudio Giorno una delle penne più creative e costanti tra quelle in servizio permanente effettivo nella lotta antitreno: «Può capitare anche ai Cattolici per la Vita della Valle (da cui ci si aspetterebbe una distanza quantomeno lessicale dai Centri Sociali) di descrivere con una certa enfasi quel che avviene quotidianamente non solo nell’enclave del “Cantiere Tav” recintata con tre ordini di filo spinato ed elettrosorvegliata 24 ore dalle telecamere della questura, ma nei piazzali delle barriere autostradali, presso le rotonde delle statali, nei dehor delle trattorie… La presenza militare invasiva è la prima cosa che notano coloro (e sono ancora molti) che per la prima volta accettano il nostro ormai tradizionale invito a visitare le bellezze della Valle di Susa (prima che sia troppo tardi)». Un’enfasi – e il linguaggio “crea” la realtà – cui non è venuto meno il solito Perino, intervenendo nel blog di Beppe Grillo dopo le perquisizioni e gli avvisi di garanzia per terrorismo partiti dalla procura di Torino: «Ci hanno ufficialmente etichettati come terroristi eversori perché ci ostiniamo a difendere il nostro territorio, a difendere le povere finanze pubbliche, a cercare di evitare gli sprechi che ingrassano banchieri, politici, cooperative rosse e affaristi di ogni colore. Ci accusano di essere terroristi perché non accettiamo i soprusi delle forze dell’ordine, perché non accettiamo che le leggi che si son fatti vengano da loro stessi calpestate e piegate ai loro porci affari. Sono loro gli eversori terroristi. La Valle non si arrende e non si piega. Così come ai tempi della guerra nazifascista a Rivoli sulla strada all’imbocco della Valle vi erano i cartelli con scritto “Achtung! Banditen”, adesso i pubblici ministeri di Caselli con il megafono dei vari media compiacenti mettono gli avvisi “Attenti! Terroristi eversori”». Un riferimento alla Resistenza che abbiamo già visto in anni bui della nostra storia repubblicana.
E non ha voluto essere da meno Sandro Plano, il postdemocristiano presidente della Comunità montana che ha dichiarato: «Far passare delle manifestazioni per eversione e terrorismo non ci vede d’accordo e lo respingiamo con forza. Se definiamo un tubo di plastica un pericoloso mortaio, possiamo anche considerarlo una bomba nucleare. Io tra chi sbaglia per ideologia e chi sbaglia per il proprio portafoglio, preferisco senza ombra di dubbio i primi». Ormai da tempo qui le parole sono diventate pietre. Speriamo nulla di peggio. Si è già fatto fin troppo serio questo “grande gioco della rivoluzione” utile solo a divertire i professionisti della rivolta che hanno trovato dimora in un movimento accecato dalla sua stessa retorica. 

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