New York, i gay dettano legge: diritto al poliamore e all’utero in affitto

Il caso di un omosessuale sotto sfratto si conclude con una sentenza che riconosce tutele legali alle unioni multiple. Quello di una coppia di uomini apre la strada ai rimborsi della surrogata per "infertilità" situazionale

Da un caso di sfratto alla normalizzazione del poliamore: succede a New York dove un giudice del tribunale civile chiamato a risolvere una controversia su un appartamento in affitto ha deciso di rendere relazioni multiple e triangoli materia di giurisprudenza.

Secondo il magistrato infatti, il concetto di famiglia si è «considerevolmente evoluto» negli ultimi decenni e la protezione legale delle relazioni omosessuali non dovrebbe essere più limitata a due persone.

Lui, lui e l’altro

Le persone in questione sono tre, tre uomini: Scott Anderson, Markyus O’Neill, Robert Romano. In breve, Anderson ha un compagno di vita, Romano: i due stanno insieme ufficialmente agli occhi del mondo e delle rispettive famiglie da 25 anni ma non vivono nella stessa casa perché vogliono «mantenere i propri spazi». In compenso Anderson nel 2012 decide di condividere i suoi con O’Neill con il quale avrebbe iniziato una relazione parallela. Almeno questa è la tesi di O’Neill: il caso arriva infatti in tribunale quando, lo scorso anno, Anderson muore e O’Neill scopre di non poter beneficiare dello stesso contratto a canone concordato o avere diritto alla titolarità dell’appartamento in quanto, secondo il padrone di casa, non si tratta in alcun modo di un familiare di Anderson, non è «nient’altro che un coinquilino». A questo punto O’Neill cerca di dimostrare in tribunale come lui e Anderson fossero diventati «più che intimi» nonostante questi avesse un’altra relazione – e conti e fondi pensione cointestati – con Romano (che non sopportava e non era amico di O’Neill).

Dalla telenovela al tribunale

Sembra una telenovela, ma per il giudice Karen May Bacdayan è l’occasione per ricordare che esistono precedenti importanti in materia di tutele legali riconosciute ai membri di famiglie non tradizionali, in primis dalla Corte d’appello dello Stato di New York (caso Braschi v Stahl Assocs. Co.) nonché dalla sentenza storica della Corte Suprema stessa (Obergefell v. Hodges) che ha imposto il riconoscimento del matrimonio gay a gli Stati americani.

Tuttavia «il problema delle sentenze Braschi e Obergefell è che riconoscono solo relazioni tra due persone». E questo secondo il giudice non ha nulla di inclusivo: «Quelle decisioni, sebbene rivoluzionarie, aderivano ancora alla visione maggioritaria secondo la quale solo due persone possono avere una relazione simile a una famiglia», «solo le persone che sono “impegnate” in un modo definito da alcuni fattori tradizionali possono beneficiare della protezione da “uno dei decreti più severi riconosciuti dalla legge: lo sfratto dalla propria casa”».

Il giudice apre la strada al poliamore

Il giudice ricorda che la legge ha sempre seguito rapidamente i cambiamenti riconoscendo più di due genitori ai bambini, non si capisce perché in tema di beni immobili non si debba procedere allo stesso modo, «perché una persona deve impegnarsi con un’altra persona solo in determinati modi prescritti per poter godere della stabilità dell’alloggio dopo la dipartita di una persona cara?», «Tutte le relazioni non tradizionali devono comprendere o includere solo due persone primarie?». Perché, si chiede il giudice, la stessa mancanza di rispetto che impediva a gay e lesbiche di sposarsi non dovrebbe stigmatizzare oggi le coppie che trovano il loro appagamento in una relazione poliamorosa? In pratica, chi siamo noi per giudicare?

La coppia gay per il “diritto” all’utero in affitto

Da un tribunale all’altro, da una telenovela all’altra – almeno così le presentano i giornali che con grande enfasi spingono per una giurisprudenza che non viva di fatti ma di emozioni per spianare la strada a qualunque diritto – il Guardian ha raccontato pochi giorni fa un’altra vicenda, sempre accaduta a New York, sempre protagonisti due omosessuali: Corey Briskin e Nicholas Maggipinto che «si sono conosciuti alla facoltà di legge nel 2011, si sono fidanzati nel 2014 e hanno annunciato il loro matrimonio nel 2016 sul New York Times. Si sono trasferiti in un condominio sul lungomare di Williamsburg, Brooklyn, con una luminosa sala giochi per famiglie al piano terra».

Una sala giochi che non riescono a riempire di bambini perché non possono «permetterseli». Colpa della natura? No, delle assicurazioni che non coprono «il costo sbalorditivo della genitorialità biologica per gli uomini gay». Duecentomila dollari, in base a una sorta di preventivo sottoposto loro dall’organizzazione Gay Parents to Be: tanto serve a due uomini per procurarsi un figlio geneticamente imparentato con loro, l’unica categoria a cui non è concessa la copertura della fecondazione in vitro.

Non hanno l’utero, fanno causa a New York per discriminazione

«Questa non è una svista, è discriminazione», sostiene Briskin, che lavorando per la città di New York come assistente del procuratore distrettuale dispone di vari benefits tra i quali un’ottima assicurazione sanitaria. Che tuttavia pare ancorata a una visione omofoba dell’infertilità, considerandola incapacità di mettere al mondo un bambino con un atto sessuale o inseminazione intrauterina. In pratica, spiega il Guardian, eterosessuali e lesbiche al lavoro per la città di New York possono accedere con copertura assicurativa alla fecondazione in vitro, mente le coppie gay di sesso maschile no.

«La policy è il prodotto di un tempo in cui c’era un malinteso, uno stereotipo, un pregiudizio nei confronti delle coppie composte da due uomini, secondo il quale non erano in grado di crescere figli perché non c’era una figura femminile in quella relazione», strepitano i due. E così Briskin e Maggipinto hanno deciso di fare causa contro la città di New York, citando in giudizio gli ex datori di lavoro di Briskin per discriminazione illegale sul posto di lavoro. Se vincono, assicurazioni e datori di lavoro negli Stati Uniti dovranno fare i conti con un precedente storico: quello di una coppia omosessuale a cui verrà riconosciuto lo status di categoria protetta da legge e assicurazioni per “assenza di utero”, come avessero una disabilità. Tradotto: dovranno subire le pressioni per farsi carco del nuovo diritto alla fertilità e, va da sé, alla maternità surrogata dei maschi gay.

I giudici del “chi siamo noi per giudicare?”

Altro che caso di sfratto o discriminazione sul lavoro, siamo al narcisismo affettivo e genetico. «La nostra famiglia sarà una famiglia senza madre. Non stiamo usando il corpo di una donna. Accettiamo la generosità di una donna di usare il proprio corpo in un modo con cui è d’accordo», «se avessimo potuto permetterci di avere un figlio di tasca nostra, lo avremmo fatto», spiega la coppia di New York che invoca a mezzo legge una giustizia riparativa alla propria disponibilità biologica ed economica. «Non tutti vogliono avere figli», dice al Guardian Briskin. «Ma se tra coloro che hanno il desiderio di procreare, nessuno vuole sentirsi dire che non c’è modo di ottenerlo». Maggipinto annuisce. «Soprattutto se c’è». Pestando i piedi in tribunale, pretendendo sentenze sempre più progressivamente aggiornate dai giudici custodi di una giurisprudenza all’insegna del “chi siamo noi per giudicare?”.

Foto Ansa

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