Nespoli tornerà tra le stelle. Quella volta che la Fallaci gli disse: «Vuoi fare l’astronauta? E perché no?»

Nuova missione per l'ingegnere italiano. Che qui racconta lo scopo dei suoi viaggi, il tornare bambini senza gravità, le domande su Dio e... gli alieni

Per la terza volta nella sua vita l’ingegnere italiano Paolo Nespoli tornerà nello spazio. Grazie alla missione Expedition 52/53, Nespoli il 30 maggio 2017 volerà tra le stelle sulla Stazione Spaziale Internazionale e vi rimarrà cinque mesi. Qui di seguito vi riproponiamo una nostra intervista apparsa su Tempi nell’agosto 2012.

Con 174 giorni, 9 ore e 40 minuti, Paolo Nespoli (classe 1957) è l’astronauta italiano che è rimasto più a lungo nello spazio. Il totale è raggiunto grazie a due missioni: la prima, nel 2007, con lo Space Shuttle Discovery, una “gita” durata un paio di settimane per riparare alcune parti della Stazione Spaziale Internazionale (ISS); la seconda è quella che gli è valsa gli onori della cronaca lo scorso anno. La spedizione, questa volta sotto l’egida dell’ESA (Agenzia spaziale europea) prevede la permanenza sulla ISS per quasi sei mesi, pricipalmente per svolgere esperimenti scientifici. A bordo della Soyuz TMA-20, Nespoli parte dal Cosmodromo di Bajkonur, in Kazakistan, la stessa piattaforma di lancio da cui cinquant’anni prima era partito il russo Yuri Gagarin, il primo uomo andato nello spazio. Con l’italiano, a bordo, ci sono il russo Dmitri Kondratyev e l’americana Cady Coleman. Partiti il 15 dicembre del 2010, faranno ritorno sulla Terra 159 giorni dopo, il 24 maggio 2011. Da questa esperienza Nespoli ha tratto un libro: Dall’alto tutti i problemi sembrano più piccoli (Mondadori). Tempi lo ha incontrato in centro a Milano.

20 luglio 1969. Cosa significa questa data per lei?
L’inizio di un sogno. È il giorno in cui il primo uomo è sbarcato sulla luna. Quando Neil Armstrong, comandante della missione Apollo 11, e Buzz Aldrin sono scesi sul nostro satellite, io ero davanti alla tv insieme a milioni di persone in tutto il mondo. Era una tarda sera di un giorno estivo, caldo. Eppure eravamo tutti incollati al televisore. Ho assistito alla realizzazione di un sogno impossibile. Mi ricordo gli astronauti che saltellavano sulla superficie lunare, e poi, nelle missioni successive, le derapate che facevano con le loro jeep. Lì ho pensato per la prima volta di voler fare l’astronauta, di voler sfidare l’ignoto. Mi ricordo che la fidanzatina di allora mi ha regalato Se il sole muore di Oriana Fallaci, un libro che racconta le sue esperienze alla NASA a Houston e Capo Kennedy alla vigilia dello sbarco americano sulla luna.

E come ha fatto il sogno di un ragazzino a diventare realtà?
È stato un percorso lungo. Dopo il liceo scientifico mi sono iscritto all’università, ma non funzionava molto e quindi dopo pochi mesi ho deciso di partire per il servizio di leva a Pisa, alla Scuola militare di paracadutismo: mi intrigava l’idea di sfidare il cielo. Poi ho deciso di rimanere e sono diventato istruttore. Un anno dopo ho passato le selezioni per entrare a far parte del corpo degli incursori. Nel 1982 sono partito per il Libano insieme alla Forza multinazionale di pace e lì sono rimasto 18 mesi. È stata un’esperienza incredibile, mi ha insegnato molto, mi ha aiutato a conoscermi e a misurarmi. Ho conosciuto tantissime persone, dal ministro della Difesa al presidente della Repubblica. E lì ho incontrato Oriana Fallaci. È stato sulla nave che mi stava riportando in Italia che ho ripreso in considerazione il mio sogno nel cassetto. Mi ricordo che la Fallaci mi ha avvicinato e mi ha chiesto che cosa volessi fare da grande. Con qualche esitazione ho risposto che da bambino avrei voluto fare l’astronauta ma che oramai era tardi. E lei, guardandomi dritto negli occhi, mi disse: «Perché no?». Ecco, diciamo che lei è stata la scintilla, ma è una tesserina di tante altre che mi hanno sostenuto. Non posso non citare la mia famiglia, così come il generale Angioni col quale avevo lavorato in Libano e poi tutti i professori che ho incontrato al Politecnico di New York, a cui mi sono iscritto subito dopo il ritorno in Italia. Dopo la laurea in Ingegneria aerospaziale, nel 1989, ho lavorato in un laboratorio di ricerca in Italia e nel 1991 sono stato assunto dall’Esa.

Il presidente americano Richard Nixon in un suo discorso disse: «La missione sulla luna è stato un viaggio della conoscenza». Cosa intendeva secondo lei?
Credo che la ragione per cui andiamo nello spazio sia quella di esplorare, conoscere, scoprire cose nuove che possono esserci utili nella vita quotidiana. L’uomo vuole, anzi deve conoscere, non può farne a meno, è un desiderio che la natura ci ha dato. Faccio sempre questo esempio: io ho una figlia di tre anni, quando la lascio sola in una stanza le devo sempre chiedere di non toccare nulla. Si immagina cosa succede dopo due minuti? Inizia a tastare tutto, perché toccando esplora e quindi impara a conoscere cose che le serviranno nella vita. Andare nello spazio è la stessa cosa. Questo è il concetto dell’esplorazione fin dall’antichità. Marco Polo è andato in Cina ed è tornato con le spezie.

E le spezie le usiamo tutti i giorni, d’accordo. Ma quello che scoprite durante le vostre missioni a cosa serve?
Potrei fare un elenco infinito di scoperte che abbiamo fatto in tutti questi anni e che hanno modificato il nostro modo di vivere. Certo, non abbiamo scoperto la cura del cancro, però cosa succederà domani io non lo posso sapere. Cerco di spiegarmi: è il principio dell’esplorazione che vale, non il risultato. Solo esplorando posso scoprire qualcosa, non so cosa, ma qualcosa di sicuro lo trovo. Quando si fa ricerca magari non si trova nulla; magari, invece, si trova qualcosa ma non si sa come usarla. Il laser è rimasto inutilizzato per oltre vent’anni perché non si sapeva come utilizzarlo. Oggi lo usiamo ovunque.

Nell’ultimo viaggio cosa avete scoperto?
In tanti mi fanno questa domanda con l’aspettativa di sentire cose veramente spaziali. Ma la ricerca non funziona così, occorre tempo per fare e rifare esperimenti, confermarli e acquisire dati. Tra gli oltre cinquanta esperimenti che abbiamo fatto voglio menzionarne uno che ha a che vedere con le modalità di sviluppo delle radici delle piante. Nel loro sviluppo le radici rispondono all’acqua e alla gravità, ogni specie in modo diverso. Alcune piante muoiono e male si sviluppano dove c’è poca acqua, perché le loro radici vanno verso il centro della Terra invece di cercare acqua. In orbita, dove non c’è gravità, si fanno crescere piccole piante (lenticchie nel nostro caso) e si cerca di capire quali siano i geni della gravità e quelli dell’acqua. L’idea è quella di ottenere piante che resistano meglio alla siccità.

Una leggenda vuole che Yuri Gagarin, una volta tornato sulla Terra, disse: «Sono andato in cielo ma non ho visto alcun Dio». Anche lei è andato nello spazio, ha visto Dio?
Immagino che la frase di Gagarin fosse un diktat del partito, niente di più. Per quanto riguarda la mia esperienza, posso dire che andare nello spazio non vuol dire necessariamente trovare delle risposte alle domande teologiche. Anzi, nel mio caso si sono moltiplicate. A bordo dell’ISS guardi il mondo in un modo totalmente diverso, lo vedi come non lo hai mai visto prima e di fronte a tanta bellezza come fai a non domandarti da dove viene? È un’esperienza fortissima, ti accorgi che è possibile fare cose “impossibili”, ma allo stesso tempo che nonostante l’impresa non hai fatto niente rispetto all’universo che ti sta attorno. A bordo della Stazione vedevo la Terra che passava sotto di me a circa 8 chilometri al secondo. In pochi minuti lo scenario passava dall’inverno all’estate, dalla primavera all’autunno, e poi dal deserto alla Siberia, dai Caraibi ai ghiacciai della Patagonia. Guardando la Terra così non riesci a pensare solo alla gente italiana. Pensi all’umanità intera. Se si ragionasse in questo modo, pensando alla collettività tutta, non agli interessi di pochi, sarebbe tutto diverso.

Cosa ha imparato durante i sei mesi della sua missione?
Una cosa che mi ha lasciato impressionato. Il fatto che in orbita non ci sia la forza di gravità ti obbliga, ti costringe a spogliarti mentalmente di tutti i preconcetti, i modi di fare che hai imparato fin da bambino. Durante le prime settimane in missione facevo le cose come ero abituato a farle: sulla Terra per camminare devi spostare il tuo centro di gravità in avanti. Nello spazio se ci provi non ci riesci perché la gravità non c’è. Questo ti costringe a fare le cose, anche le più banali, in modo diverso. È un processo che ti obbliga a rimetterti in gioco, devi provare, tentare, sbagliare, scoprire. Credo che se ogni tanto, anche sulla Terra, provassimo a fare le cose in modo diverso, forse la nostra vita un pochino ci guadagnerebbe.

Tornando agli esperimenti spaziali: arriveremo mai su Marte?
Sono convinto di sì, in 20 o al massimo 30 anni. È complesso, difficile, ma possibile. E quando ci saremo arrivati non avremo fatto altro che un passettino perché Marte, considerando l’universo intero, è vicinissimo a noi. Cerco di farle capire: la stella Alfa del sistema Centauro è quella più vicina alla Terra, si trova a 4,2 anni luce, vuol dire che se riuscissimo ad andare alla velocità della luce (300 mila chilometri al secondo) ci impiegheremmo 4,2 anni per raggiungerla. Alla velocità delle navicelle di oggi circa 30 mila anni, anno più anno meno.

Molti credono che l’uomo non sia mai stato sulla luna.
E mi fanno ridere. Però la cosa è interessante perché rivela il modo in cui molta gente ragiona: tanti sono più propensi a dare credito a una foto che dicono abbia un’ombra sbagliata, piuttosto che alle altre 10 mila che sono state scattate. Alle persone della mia età chiedo: se in piena Guerra fredda i russi avessero potuto dimostrare che l’allunaggio era tutta una colossale montatura, pensate non lo avrebbero fatto con enorme piacere?

Senta, lei che è stato nello spazio ci dica una volta per tutte: esistono gli alieni?
Posso assicurarle che non abbiamo mai incontrato forme di vita aliene dagli anni Sessanta a oggi. Però, se mi chiede se credo alla loro esistenza, devo ammettere che la risposta è sì. Nell’universo esistono sicuramente dei pianeti con le stesse caratteristiche della Terra e quindi mi sembra strano che l’uomo sia l’unica forma di vita esistente.

Al Meeting di Rimini di quest’anno ci sarà una mostra dedicata alla sua avventura nello spazio intitolata “Space Gallery”. Che obiettivi ha l’esposizione?
La mostra è il tentativo di portare sulla Terra un pezzettino di universo. Ci saranno immagini di come si vede la Terra, di come la stiamo cambiando, magari senza rendercene conto. Servirà a stupirsi di fronte al bello e alla sua fragilità, a fare riflettere su chi siamo e cosa facciamo.

Exit mobile version