Nel nome di Maria(m). In una consonante perduta ritroviamo una storia

Dall’aramaico giudaico al greco e poi al latino. Con tracce che risalgono addirittura all’antico Egitto. Non è solo una questione grammaticale, ma il segno che gli evangelisti parlano di una persona vera

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

In aramaico giudaico, la lingua di Gesù, il nome Maria è םירמ Mariam o Miriam. I vangeli, scritti in origine in greco, lo riportano in due forme: una indeclinabile Μαριάμ Mariam; l’altra declinabile Μαρία Maria. La vulgata, la traduzione in latino delle sacre scritture di san Girolamo, lo trascrive invariabilmente come Maria, e questo è il nome che ci è stato infine restituito, in italiano.

Sia il greco sia il latino prevedono infatti la declinazione dei nomi propri di persona, ma alcuni di questi, di regola di origine straniera, sono indeclinabili (ad esempio Abraham), vengono cioè usati in una medesima forma in tutti i casi anche se spesso si aggiunge una forma declinabile degli stessi (ad esempio Abrahamus, -i). In latino, un’ipotetica forma indeclinabile come Miriam è però impensabile, per l’ovvia confusione che ne deriverebbe per un nome femminile della prima declinazione, e san Girolamo adottò unicamente la forma declinabile Maria. Cadde così, anche in italiano, la emme finale dal nome di Mariam, ossia la mi greca μ che trascrive, a sua volta, la mem chiusa ebraica ם del nome originale.

La forma indeclinabile, più fedele all’originale aramaico, non pone invece problemi in greco. Luca, cioè l’evangelista che tratta più diffusamente della nascita di Gesù e di sua madre, adotta Μαριάμ Mariam non solo al nominativo e al vocativo, dove è più naturale, ma anche all’accusativo (Lc 2,16; 2,34) e al dativo (Lc 2,5), giovandosi della forma declinabile esclusivamente al genitivo. Matteo utilizza la forma Μαριάμ Mariam solo al nominativo (Mt 13,55) e riportando un discorso diretto («sua madre non si chiama Maria?»). E così pure Luca, al vocativo, quando l’angelo saluta Μαριάμ Mariam con il suo «non temere, Maria» (Lc 1,30). In Marco, troviamo il nome della madre di Gesù solo una volta e al genitivo (Mc 6,3). In Giovanni, Gesù risorto per farsi riconoscere da un’altra Maria, la Maddalena, la chiama Μαριάμ Mariam e «quella, voltatasi, gli disse in ebraico: Rabbunì (che significa “maestro”)», facendo così della scena della resurrezione una delle più realistiche dal punto di vista psicologico (Gv 20,16).

Non è solo una questione grammaticale: gli evangelisti che devono scrivere in una «metalingua», quale era il greco, per portare il vangelo in un impero romano che lo parlava ovunque, bene o male, come avviene oggi per l’inglese della globalizzazione, sottolineavano così il “dato di realtà”, il fatto che si parla non dei personaggi di una favola, ma di persone in carne e ossa, chiamandole con il loro nome storico. Con il nome Μαριάμ Mariam o Μαρία Maria si indicano non poche donne nel nuovo testamento, oltre la madre di Gesù: Maria Maddalena, Maria sorella di Lazzaro e Marta, Maria di Clèofa madre di Giacomo il minore, Maria madre di Giovanni detto Marco (At 12,12) e una Maria, cristiana romana («che ha faticato molto per voi»), salutata da Paolo nella Lettera ai Romani (Rm 16,6).

Si deve trattare evidentemente di un nome assai popolare e amato se, al tempo di Gesù, una proporzione così significativa delle donne inserite nella narrazione neotestamentaria lo porta. Un nome che per fedeltà alla tradizione, come quasi tutti i nomi ebraici, è tratto dall’antico testamento. Ove però, in modo singolare, si registra un’unica Mariam o Miriam: la sorella di Mosè e di Aronne. Ciò ci riporta però molto indietro, all’epoca di una civiltà antichissima, dove gli israeliti erano solo manodopera. Praticamente niente. Un antico negazionismo che perdura tutt’oggi, dal momento che c’è chi non concede neanche il beneficio del dubbio nel negare la storicità della presenza del popolo ebraico in Egitto, nonostante le numerose evidenze culturali, archeologiche e paleografiche.

Una scienza giovane
La settimana scorsa ho provato una forte emozione nel ritornare a leggere, dopo diversi anni di letture egittologiche, i libri della Genesi e dell’Esodo, nella recente edizione quadriforme curata da Roberto Reggi, che raccoglie il testo ebraico masoretico e la versione greca dei Settanta (con le rispettive traduzioni interlineari a calco), la versione latina della Nova Vulgata ed il testo Cei 2008. Appena fatto ritorno a casa, dopo averli acquistati, mi sono precipitato a cercarla: dove sei Mariam?

Già alle prime righe del libro dei Nomi תומש mi sono trovato ricacciato in un mondo che sì, riconoscevo assai bene – dal punto di vista degli antichi egizi – ma che ora rivedevo con altri occhi. L’Esodo fa dire al faraone: «Ecco che il popolo dei figli di Israele è più numeroso e più forte di noi. Cerchiamo di essere avveduti nei suoi riguardi per impedire che cresca, altrimenti, in caso di guerra, si unirà ai nostri avversari, combatterà contro di noi e poi partirà dal paese» (Es 1,9-10). E inoltre: «Quando assistete le donne ebree durante il parto, osservate bene tra le due pietre: se è un maschio fatelo morire, se è una femmina potrà vivere» (Es 1,15-16). Ed ecco cosa ci manda a dire un faraone nella stele ritrovata nel 1896 da Flinders Petrie (Stela Cairo CGC 34025): «Israel è desolata, non c’è più il suo seme, la Palestina è divenuta vedova per l’Egitto, chi era turbolento è stato legato dal re Merenptah, sia egli dotato di vita come Ra, ogni giorno». E che dire, poi, di quell’incomprensibile «tra le due pietre» presente nel testo masoretico, ma espunto dai Settanta e da Girolamo, che forse non sapevano che le egiziane partorivano accosciate sui “mattoni della nascita”, personificazione della dea Meskhenet. Compare all’orizzonte la città-deposito di Pitom, dove vengono concentrati gli israeliti, costretti ai lavori forzati (Es 1,11).

Non è un luogo di fantasia, ma il toponimo (Pi-Tum) di un sito concesso per il mantenimento della popolazione nomade, attestato da un papiro di un alto funzionario, che un egittologo del calibro di Gardiner colloca nel Wadi Tumilat. Lo sfruttamento e le angherie dei sovrintendenti portano i pur sottomessi scribi ebrei a un vano reclamo “per via gerarchica” al faraone (Es 5,15-16), un po’ come avviene nel Papiro dello sciopero conservato a Torino. Ma il risentimento fra egizi e israeliti, popolo di eterni migranti (Es 6,4), monta oltre la storica soglia culturale di pregiudizio verso gli stranieri, detti “i Nove Archi”, indistinta pluralità di genti ostili. Degenera, secondo l’Esodo, in una crisi che la letteratura egizia descrive, con l’identico drammatico registro narrativo, nelle Lamentazioni di Ipuwer – uno dei riferimenti obbligati, in questo caso.

Sarà quindi esistita una “vera” Mariam in questa assai “verosimile” storia? Una ragazzina, come minimo sveglia e simpatica, che pilota il fratellino nelle braccia protettive della figlia del faraone e che “strappa”, con disinvoltura, un baliatico a vantaggio della stessa madre (contratto messo per iscritto, nell’antico Egitto, con tanto di penali per le balie che compromettessero la qualità del latte). Che sparisce com’è apparsa per poi ricomparire, adulta, con il suo nome, quando tutte le questioni con i loro oppressori verranno tragicamente risolte nel Mar Rosso, il Grande Blu-Verde degli egizi: «Allora Maria, la profetessa, sorella di Aronne, prese in mano un tamburello: dietro a lei uscirono le donne con i tamburelli e con danze. Maria intonò per loro il ritornello: “Cantate al Signore, perché ha mirabilmente trionfato: cavallo e cavaliere ha gettato nel mare!”» (Es 15,20-21).

L’egittologia è una scienza molto giovane, anche da un punto di vista linguistico e filologico. Questioni importanti, ad esempio, sulle forme verbali – argomento ostico per una lingua che come l’ebraico non annota le vocali – sembrano aver trovato una sistemazione solo negli ultimi decenni. Molti studiosi suggeriscono che il nome Mariam derivi dall’antico egiziano. Altri propendono per un’origine ebraica. L’ipotetico contesto storico e l’effettivo contesto testuale, proposto dall’Esodo, impongono però che debba essere presa in considerazione la prima ipotesi, perché è da questo crogiuolo culturale che emerge tale nome e quello di Mosè, sicuramente egizio.

La grande sposa reale
Ipotizzando l’acculturazione conseguente all’integrazione, era del tutto normale per chi abitava in Egitto imporre nomi basilofori (contenenti nomi di re) o teofori (contenenti nomi di divinità) alla propria discendenza. In questa eventualità l’individuazione dell’antroponimo da cui deriva il nome Mariam si pone in modo quasi paradigmatico: è Meryt-Amon (si veda il riquadro illustrativo qui sopra).

Il nome Meryt-Amon (trascritto anche come Meryt-Amun o Meryt-Amen, con o senza trattino) è ampiamente diffuso e documentato nel Nuovo Regno, il grande periodo storico in cui vanno letti gli eventi dell’Esodo, risponde a entrambe le caratteristiche ed è coerente con la vocalizzazione e la trasformazione in Mariam o Meriam. Meryt-Amon era niente meno che la Grande Sposa Reale di Ramses II. È quindi un nome femminile basiloforo per antonomasia, per quel tempo. Il significato è «amata da Amon». Dal momento che Amon è il potentissimo dio di Tebe si tratta, parimenti, di un importante nome teoforo.

Ma come si concilia Meryt-Amon con Mariam? In realtà, la scrittura geroglifica restituisce solo lo scheletro consonantico del nome: mryt-jmn. Ma sulla base del copto, l’ultima fase della lingua egiziana antica che annotava le vocali (avendo adottato e integrato l’alfabeto greco), e di conoscenze ormai assodate sui principali fenomeni legati al fonetismo in egiziano, Meryt-Amon poteva venire pronunziato approssimativamente Meriàmun. L’accertata diffusa propensione ad adottare forme ipocoristiche (diminutivi e vezzeggiativi), specie in ambito familiare, poteva infine dar luogo alla lettura Meriàm, equivalente a Mariam, nel contesto semitico, dove la vocalizzazione è mutevole. L’egittologo potrebbe infine ricordarci delle “cantanti di Amon” (che accompagnavano i riti con canti, danze e con il sistro) o delle “profetesse di Amon”: le suggestioni non mancano (Es 15,20). A noi preme solo concludere che il nome di Maria ha una grande storia. Una storia vera.

Foto Ansa

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