Vederle insieme è comunque una occasione rara e i fan dell’arte pop e del linguaggio sintetico dei media saranno sicuramente soddisfatti. Quale potrebbe essere, invece, la reazione dei profani del genere? <<Non ti preoccupare – diceva lo stesso Warhol – non c’è niente che riguarda l’arte che uno non possa capire>>. Ed infatti l’immediatezza e la semplicità di quei volti iconici, la visionaria ed entusiasta elevazione ad opera d’arte – riproducibilissima – dell’immagine delle zuppe Campbell, o della Coca Cola, ci immergono in quel mondo anni Sessanta dove tutto era possibile, oltre che facilmente trasformabile. Ma se la Fondazione Roma, attraverso le sue ambiziose retrospettive, ha come fine, oltre alla diffusione dell’arte visiva, quello di dar luce alla centralità della storia dell’arte di Roma nei secoli, questa volta poteva fare di più. Assente qualsiasi rimando alla città ospitante, qualsiasi spunto di riflessione tra i capolavori mostrati e quella romanità pop e colorita: una volta lasciate le sale ben allestite della Fondazione, infatti, la capitale ci riassorbe nella sua soffocante calca, cancellando in poco tempo ogni suggestione lasciataci dalle opere appena ammirate. Sarà che la città, come Warhol, basta a se stessa.