Le morti di parto (e di aborto) e la nostra illusione di «arginare il destino biologico»

Il ginecologo Michele Vignali: «L'errore, la morte, la malattia, la malformazione, il dolore fanno parte della vita. E non esistono medico o medicina o un diritto che ci tutelino dalla vita»

La notte di Natale nasce all’ospedale maggiore di Parma Bryan, un bambino privo di arti dal ginocchio in giù. Una malformazione che nessun esame, nessun medico, nessuna struttura pubblica o privata aveva rilevato durante la gravidanza. La vicenda diventa in fretta giudiziaria così come la narrazione dei giornali: «Si assimila il caso alle recenti morti di parto, ci si sofferma sugli aspetti legali, si individua un diritto leso, e ci dimentichiamo di Bryan», dice a tempi.it Michele Vignali. Ordinario di Ostetricia e Ginecologia all’Università degli Studi di Milano, Vignali è dirigente medico di I livello in Ginecologia ed Ostetricia presso la Macedonio Melloni, storica clinica materno-infantile che con 2.500 parti l’anno rappresenta il terzo punto nascita del capoluogo lombardo dopo la Mangiagalli e il Buzzi.

Professor Vignali, per giorni si è fatto un gran parlare del perché non ci si fosse accorti prima della menomazione di Bryan e del “diritto negato” dei genitori di non farlo nascere a causa del suo handicap. Ma Bryan è vivo, è nato. Non è un paradosso parlare di opportunità di vivere quando il bimbo è vivo?
C’è un cortocircuito tra il fatto e la sua narrazione: il punto non è che è nato un bambino senza gambe (non è il primo né l’ultimo della storia, e per quanto possa essere difficile e doloroso per un genitore ammetterlo, nel novero delle patologie esistenti resta uno dei mali minori), il punto è che c’è l’ipotesi di un errore medico. Altrimenti della nascita di un bimbo senza gambe non se ne sarebbe occupato nessuno. E qui si inserisce un tema comune legato a questi e altri eventi trattati come “casi di cronaca”, e cioè quella caratteristica della società moderna di rifiutare l’evidenza: l’errore, la morte, la malattia, la malformazione, il dolore esistono e fanno parte della vita in ogni suo momento, a prescindere da quello della nascita, e non esistono medico o medicina o un diritto che ci tutelino dalla vita. Un intervento può non riuscire, un medico può sbagliare, un esame può fallire, un bambino può nascere senza gambe. Negarlo è negare un’evidenza, è opporvi un modello astratto esattamente come un’astrazione è immaginare il bambino perfetto. Bryan è stato originato come tutti gli altri bambini “sani”, come i suoi genitori, Bryan in pancia era l’origine di un altro uomo. Che diventerà grande, si svilupperà, crescerà, sarà un adulto, sarà tante cose. Lungi da me giudicare il dramma della famiglia e le richieste di risarcimento: può darsi che l’errore ci sia stato. Ma anteporre il diritto ai fatti, trattandoli appunto come materia di cronaca giudiziaria e non come cose della vita, è pratica comune a giornali e tv.

«Siamo sicuri che questa è una storia da trattare come un caso di cronaca giudiziaria?», scrive Michele Brambilla sulla Gazzetta di Parma. «Siamo sicuri che una sentenza che ha stabilito che la tua nascita è stata un danno da risarcire sia una cosa che possa farlo star male meno della mancanza delle gambe?». È così? Opportunità di vita, morte, malattia sono diventate materia di diritto, roba da giudici, tribunali, ordinanze?
Mi ha molto colpito il caso della coppia di Lucca che ha chiesto un risarcimento per la bimba con sindrome di Down nata perché l’anomalia non era stata diagnosticata in gravidanza: la Cassazione a sezioni unite ha dovuto sentenziare che “non esiste un diritto a non nascere” se il bambino non è sano, l’ordinamento “non riconosce il diritto alla non vita”. Davanti ai risultati di una diagnosi prenatale (che sarebbe bene chiamare con coraggio come ha fatto Giuliano Ferrara “diagnosi di annientamento prenatale”, in quanto non esiste alcuna terapia per le anomalie evidenziate, se non “liberarsi” del feto in grembo), io, come medico, devo ricordare alla madre che quello è lo stesso bambino per cui aveva gioito guardando lo schermo di una ecografia a 8 settimane di gestazione. Non smette di essere lo stesso bambino, non smette di essere suo figlio, non diventa materia diversa a 16 settimane. Poi c’è la libertà. Ho seguito una madre di 28 anni che si è sottoposta a screening prenatali non invasivi che non avevano evidenziato anomalie cromosomiche, tuttavia la sua bambina è nata con la sindrome di Down. Mesi dopo è tornata per dirmi: “Ho passato un periodo terribile guardando, indagando la mia bambina come fosse una malattia, le sue mani, la sua lingua. Quando ho iniziato a guardarla e vederci mia figlia, è diventata il mio bene più prezioso”. L’onestà di questa donna – che, sottolineo, non è cattolica né credente – è possibile a chiunque. È concreta, tangibile, non ha niente a che fare con l’astrazione, “il diritto di sapere prima” o di “non metterla al mondo se non sana”.

Una ragazza di 19 anni è morta all’ospedale Cardarelli di Napoli dopo una interruzione volontaria di gravidanza. Un altro caso che colpisce l’Italia dopo le morti per parto avvenute in diversi ospedali del paese. Su Repubblica Daniela Minerva commenta: «Col Ssn se ne va l’unico sottile pannicolo che ci protegge dall’ineluttabiltà della biologia, che comporta le malformazioni, le malattie, la morte. È la civiltà della salute pubblica che costruiamo per arginare il destino biologico. Per sedare il dolore. Per vivere più a lungo. Per poter mettere al mondo i figli in sicurezza. O, se con angoscia lo scegliamo, per rinunciare a quelli malformati». È d’accordo?
Nel caso del Cardarelli è possibile che ci sia stato un errore medico, visto che le morti collegate ad aborto sono eventi rarissimi. Come lo sono del resto le morti collegate ai parti (10 morti su 100 mila nati vivi, dati Istituto Superiore di Sanità, ndr). Perciò la vicinanza di eventi così rari ha sorpreso noi medici per primi. Ogni evento, ripeto, può diventare un imprevisto, la stessa diagnosi prenatale invasiva comporta un rischio di morte fetale (lo 0,5-1 per cento nel caso dell’amniocentesi, l’1-2 per cento nel caso della villocentesi). In pratica, cercando di sapere se un bambino nascerà sano ho 2 probabilità su 100 di causarne la morte. Detto questo, le parole della stampa sono ancora una volta significative: penso al risalto che è stato dato agli sms in cui la donna morta a Brescia scriveva di sentirsi trascurata dal personale dell’ospedale. Penso al commento da lei citato e a tutti i commenti che invece non sono stati scritti sui vivi e sui “malformati” a cui non si è rinunciato. Non credo che il Servizio Sanitario Nazionale venga depauperato perché si verificano cinque eventi rarissimi, o perché i medici, in quanto uomini, possono a volte (anche clamorosamente) sbagliare.

Si parla molto di utero in affitto in questi giorni. Con le tecniche di riproduzione artificiale, si svincola la procreazione dalla coppia, dalla famiglia e dalla sessualità. Non mancano nemmeno casi di aspiranti genitori che ricorrono alla surrogata ma poi rifiutano il figlio perché malformato, obbligando per contratto la gestante ad abortire. Cosa sta succedendo?
Succede che siamo arrivati al punto in cui “se è lecito, se è legale, allora perché non farlo?”. Non solo si fa la fecondazione assistita (che avviene in provetta nel 90 per cento dei casi) nonostante solo il 18 per cento dei genitori che ricorre a queste tecniche riesca a uscire da un ospedale con un figlio in braccio, ma ci si chiede perché non utilizzare gli embrioni prodotti in sovrappiù come pezzi di ricambio. Si affitta l’utero di una donna, si scelgono ovuli e materiale biologico e si paga per una prestazione. L’origine della vita diventa materia da normare e oggetto di grande business. E nel tentativo di padroneggiare il “destino biologico”, non ammettiamo più la possibilità della morte, della malattia, dell’imprevisto. E della vita stessa. Diciamo di occuparci dell’uomo e procediamo contro l’uomo stesso. Con il megafono dei media e le sentenze dei tribunali.

Foto sala parto da Shutterstock

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