Mereyowitz al Meeting, il fotografo di Ground Zero dialoga con Gus Powell

Riproponiamo un'intervista all’artista che ha cercato la bellezza in mezzo alle macerie del World Trade Center in occasione del suo incontro con l'autore della mostra "Family Car Trouble"

Il fotografo Joel Meyerowitz, ospite al Meeting di Rimini (foto Ansa)

Oggi al Meeting di Rimini, alle 21 in Auditorium D3, il celebre fotografo americano Joel Meyerowitz dialogherà con Gus Powell su come la fotografia può rappresentare e celebrare la vita di fronte e attorno a noi. Riproponiamo l’intervista di Meyerowitz a Tempi pubblicata nel settembre 2011.

Ha uno studio su West 19th Street dal 1981. Dal grande finestrone si vedeva Lower Manhattan e il World Trade Center. Joel Meyerowitz, il più grande fotografo in circolazione a New York, iniziò a fotografare le Torri Gemelle senza che nessuno glielo chiedesse. «Sono cresciuto a New York – racconta – e il World Trade Center l’ho visto costruire. Se prendevi un teleobiettivo le torri sembravano banali, come una grattugia per il formaggio. Erano troppo grafiche, troppo grandi. Ma se le guardavi nel contesto, con lo spazio che le circondava  strofinandosi l’una sull’altra, con i bordi luccicanti, con una scheggia rosa di sole che passava tra loro, diventavano uno spettacolo straordinario». L’ultima fotografia delle Torri Gemelle Meyerowitz la scatta il 6 settembre 2001. È l’ora del crepuscolo. Il cielo limpido degrada dolcemente dal turchese al giallo a un pallido arancione. Nei giorni successivi è nel suo cottage di Provincetown.

La mattina dell’11 settembre esce di casa per un servizio commerciale per un albergo di Chathan a una quarantina di chilometri di distanza. Riceve una chiamata dalla moglie e appena riesce a raggiungere un televisor vede il secondo aereo schiantarsi contro la torre Sud. A Manhattan riesce a tornare solo quattro giorni dopo. Prende coraggio e arriva a Ground Zero con al collo la sua Leica. Avvicina il mirino all’occhio sinistro e sta per scattare. Ma un poliziotto gli intima di non farlo: non si può fotografare la “scena di un crimine”. «Rimasi scioccato – ricorda in un’intervista del novembre del 2001 – quel gesto aveva in sé qualcosa di assolutamente autoritario. Immobile di fronte a quel poco che si poteva scorgere in lontananza, in quel momento pensai che senza fotografie non ci sarebbe stata storia». Dopo diversi giorni di trattativa ottiene un permesso che lo rende l’unico fotografo a poter ritrarre Ground Zero. Dal settembre 2001 al marzo 2002 Meyerowitz si aggira tra le macerie con la sua macchina fotografica di grande formato, la stessa con la quale ha immortalato i tramonti di Cape Code e le notti bianche di San Pietroburgo.

Polvere fitta, lamiere, cemento,  detriti di tutti i generi. Lo spettacolo è sconvolgente. Joel appoggia il cavalletto, inquadra, attende e scatta. Non solo le macerie, ma anche l’epopea dei soccorsi. Il risultato del lavoro è il World Trade Center Archive, un archivio di circa 8 mila immagini ora conservate nei musei di New York e Washington. «Guardando queste immagini dopo dieci anni – racconta a Tempi – mi stupisco dell’importanza storica che hanno. Ho realizzato queste fotografie da solo, lavorando contro il tempo, dato che le macerie venivano rimosse 24 ore su 24. Oggi sento ancora più fortemente che il mio impeto di combattere contro il divieto di fotografare imposto dal sindaco fu giusto». Quale di queste immagini ama di più? «Torno sempre a guardare le immagini degli uomini che scavano in cerca di tracce o resti: un dente, un osso, qualsiasi cosa contenesse del Dna che potesse aiutare a identificare una delle vittime. Mi sembrò che questa immagine, questo obiettivo, avesse qualcosa di antico, un’immagine che provenisse dalla preistoria di ogni cultura. Come un uomo che fa il raccolto».

Ma a Ground Zero Meyerowitz non passa inosservato e durante quei lunghi mesi deve convivere con gli altri abitanti di quel luogo, soprattutto poliziotti e pompieri. E si rende conto, anche, che non tutto si può fotografare. «Ho evitato di fotografare i morti. Non desideravo che queste immagini risultassero irrispettose dei sentimenti di quei pompieri e agenti di polizia i cui colleghi erano morti in quel luogo». Sono giorni paradossali quelli passati tra le macerie del World Trade Center e difficile è descrivere i sentimenti provati: «Ogni singolo giorno che mi sono trovato in quel luogo, mi sono sentito riempito da un’emozione traboccante. Ogni cosa umana è entrata in gioco: dolore, tristezza, sgomento, incredulità e, anche se può sembrar strano, gioia, risate, cameratismo.

Era la vita vera vissuta in uno stretto quadrilatero riempito di morti e di vivi e, come in una guerra o in una tragedia, i vivi sono capaci di tutti i sentimenti umani». Tutti i sentimenti umani, come raccontò in un’intervista del 2005 il regista tedesco Wim Wenders che accompagnò Meyerowitz per un giorno: «Quell’8 novembre del 2001, ho avuto questo onore. Certo, una volta là, Joel mi ha lasciato libero di fotografare da solo. Avevo portato una macchina panoramica e ci trattenemmo a Ground Zero per diverse ore. Fu un giorno autunnale incredibilmente bello: una luce stupefacente illuminava l’intero sito trasformando la tristezza desolante delle macerie in uno spettacolo veramente unico. Joel, a un tratto, si rivolse verso di me chiedendomi: “Potrai mai essere più fortunato?”. Lui aveva già scattato numerose fotografie, giorno dopo giorno, ma mi confessò di non aver mai visto un mattino simile».

Questo stupore rimane impresso sulla pellicola e anche oggi, a dieci anni di distanza, chi guarda le immagini di Aftermath (Phaidon), il libro che da quel lavoro ha avuto origine, non può non percepire uno straniamento. «Sembra crudele scoprire la bellezza nelle foto di guerra – ha scritto Susan Sontag in Davanti al dolore degli altri (Mondadori). Eppure, un paesaggio di devastazione resta sempre un paesaggio. C’è bellezza nelle rovine. Ma riconoscere la bellezza nelle fotografie delle rovine del World Trade Center sembrava frivolo, sacrilego. Tutt’al più ci si arrischiava a dire che quelle foto sembravano “surreali”, ricorrendo a un affannoso eufemismo dietro il quale trovava riparo la screditata idea della bellezza».

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