Meno iscritti, docenti e corsi all’università? Lenoci: «Non per forza è un male e i soldi non c’entrano»

All'università mancano 58 mila iscritti rispetto a 10 anni fa. Tragedia? «Non per forza, il problema è l'ideale del guadagno facile». Intervista a Michele Lenoci, università Cattolica di Milano.

Tutti i giornali hanno dato l’allarme: «58mila matricole in meno in 10 anni e docenti in forte calo». Il virgolettato è del Cun, Consiglio universitario nazionale, che ha rilasciato questi dati sull’università: dal 2003-2004 al 2011-2012 gli iscritti sono passati da 338.482 a 280.144, dal 2006 sono diminuiti del 22 per cento i docenti e sono scomparsi in meno di sei anni 1.195 corsi di laurea. Tutti si sono stracciati le vesti, criticando i governi per i tagli all’istruzione e alle borse di studio e incolpando la crisi. «Queste analisi mancano di prospettiva» va controcorrente Michele Lenoci, preside della facoltà di Scienze della Formazione all’università Cattolica di Milano. Continua in un’intervista a tempi.it: «Non per forza queste diminuzioni rappresentano un male, anzi».

Meno corsi universitari non significa meno offerta formativa?
Non è proprio così. Gridare scandalizzati alla riduzione dei corsi è un errore di prospettiva perché con la riforma Gelmini c’era stato un grande fiorire di corsi, spesso inutili e frutto della fantasia di alcuni atenei. E mi ricordo che i giornali, che hanno poca memoria, si lamentavano che molti corsi fossero a iscritti zero. Ed è proprio per questo che molti sono stati chiusi, perché erano in esubero, fantasmagorici, con scarse possibilità di sbocchi professionali. Senza contare che in molti casi questi corsi erano allocati in università presenti in piccoli paesi. Le sedi universitarie sono proliferate in maniera tumorale e anche questo non era salutare. A cosa servivano in buona sostanza questi corsi? A impiegare personale docente e amministrativo. Io non credo che questa prima riduzione sia negativa, ma piuttosto un fenomeno di razionalizzazione sana.

Anche i docenti però sono diminuiti.
Sì e in questo caso le difficoltà economiche hanno inciso perché è stato applicato il turnover, che funziona in questo modo: per ogni cinque professori ordinari che vanno in pensione, ne viene assunto uno e si bandisce un posto di ricercatore a tempo indeterminato. Questo riduce il numero dei docenti ovviamente.

È un male dunque.
Ancora una volta, non per forza. Bisogna considerare infatti che negli anni ’80 c’è stato un notevole ingresso di professori universitari e con i concorsi locali c’è stata un’immissione notevole di idonei e chiamati, molti dei quali vanno in pensione ora. È vero allora che c’è una diminuzione, è vero che le difficoltà economiche influiscono, ma teniamo conto che c’era stato un notevole incremento di organico in passato, che ha fatto proliferare corsi e offerta formativa. E se siamo in tanti, dobbiamo lavorare, quindi aumentare l’offerta e i corsi. Però sappiamo tutti che l’offerta a volte è ricca perché contiene molti contenuti di valore, altre volte è ricca perché piena di chiacchiere e fuffa.

E per quanto riguarda il calo degli studenti? Sono davvero i tagli ad avere inciso così tanto?
Io penso che le difficoltà economiche delle famiglie, dovute alla crisi, sicuramente influiscono ma non in modo decisivo. Individuo invece tre motivi per questo calo. Il primo è dovuto alla volontà dei giovani di guadagnare molto e in fretta. L’ideale è quello del guadagno facile e senza fatica. La laurea spesso non garantisce nell’immediato un lavoro e, se lo garantisce, non subito ben remunerato. Per questo, pensano in tanti, è meglio restare a casa, trovarsi un lavoretto e comprarsi la macchina. Una cultura del guadagno facile e senza fatica può incidere sulle iscrizioni all’università, che richiede fatica e sacrificio. Magari col tempo la laurea permette guadagni maggiori, ma solo dopo un lungo e faticoso tirocinio. Ecco perché il titolo viene snobbato.

Il secondo motivo?
È un motivo che se fosse confermato dai dati sarebbe molto positivo. Se infatti ci fossero meno studenti all’università perché hanno preferito dedicarsi al mondo artigianale e creativo tipico dell’Italia, allora non sarebbe un male, perché vorrebbe dire che finalmente siamo riusciti a valorizzare l’istruzione professionale. Chi percorre la strada del lavoro personale di bottega non ha bisogno della laurea. Questo è importante perché in Brianza, ad esempio, so che molti mobilifici chiudono perché la vecchia generazione va in pensione e i giovani, che fanno tutti gli architetti, non ci sono più. Non chiudono quindi perché falliscono ma perché mancano i lavoratori. Se la diminuzione delle iscrizioni universitarie è dovuta a un aumento della cultura professionale, allora è un bene e non un male. Però non ho prove per dire che sia così.

Rimane il terzo motivo.
In tanti mi dicono che in alcune regioni del nord-est c’è un disamore per lo studio e la laurea perché i figli e i ragazzi vengono messi in fabbrica subito, dove lavorano moltissimo e anche bene. La cultura è ritenuta un lusso non necessario. Il rischio, secondo gli industriali, è che il know-how su cui lavorano i giovani, che è quello dei vecchi, non si rinnovi. I giovani lavoratori senza capacità tecniche e culturali rischiano di perdere genialità e quindi capacità di innovare. In poco tempo, mi diceva un industriale, saremo debitori della Germania, da cui compreremo i brevetti e il know-how per andare avanti.

Perché la cultura viene ritenuta superflua?
Oggi si dà più importanza al valore materiale del guadagno. Questo fatto interseca la crisi, che ne fa sentire di più l’esigenza, ma la verità è che non si disprezza la cultura perché non si arriva a fine mese ma perché la si considera inutile.

È questo è sbagliato?
Sì, la cultura non è superflua perché proprio nei momenti di crisi, anche economica, valorizzare la dimensione culturale, cioè umanistica in senso largo e anche scientifica, consente di elevare a lungo termine il livello del capitale umano del paese. La cultura aiuta anche a rendere più sopportabile il periodo di crisi, nel lungo termine offre occasioni di crescita duratura e non solo occasionale. Ecco perché investire sul piano culturale, sia da parte del pubblico che delle famiglie, significa puntare sul futuro rispetto a una soluzione di breve termine del carpe diem, nel senso di mangia, bevi e non curarti del domani.

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