«La madre accoglie, il padre custodisce, il figlio non teme». Al Meeting l’accoglienza è un’opera d’arte

“Non come, ma quello. La sorpresa della gratuità”, uno straordinario faccia a faccia tra artisti e volti e storie di 40 anni di Famiglie per l'accoglienza

«Mentre mi raccontavano la loro storia e li osservavo, ho percepito che vivevano l’incontro con lui come un dono che ha segnato la loro esistenza e del quale anche a me accadeva di essere partecipe in quel momento».

Lui è Andrei, loro sono la madre e il padre che lo hanno accolto. Chi parla è invece Marina Lorusso, fotografa, autrice di uno scatto in bianco e nero, Il dono di un avvenimento, dove c’è tutto. C’è lo sguardo buono dell’uomo che abbraccia la donna, lei che china e affonda il viso nei capelli di Andrei, il bambino che accenna a un sorriso di sfida all’obiettivo: «La madre accoglie, il padre custodisce, il figlio non teme», ha spiegato la fotografa. C’è anche lei, in quel momento, lei a cercare nella vita dei tre ciò che è successo e succede anche ora davanti a lei, per lei e chi incrocia gli occhi di Andrei in quello scatto.

A ogni artista una famiglia

Al Meeting di Rimini ci sono Andrei, i genitori che l’hanno accolto, Lorusso, perché c’è “Non come, ma quello. La sorpresa della gratuità”, una mostra per raccontare i 40 anni di Famiglie per l’accoglienza e che chiamare sorpresa è poco: raggiungere il padiglione A3 e immergersi nella grande piazza in legno su cui affacciano sedici stanze, al centro l’esperienza di Famiglie per l’accoglienza e le parole di don Giussani, nelle stanze quella di madri, padri, figli dell’associazione. Esperienze affidate all’incontro con quattordici artisti, ciascuno sfidato a incontrare una famiglia adottiva o affidataria e tradurre in opera questo incontro. Sfidati da un giudizio di Giussani:

«Non vi è alcuno sviluppo se quell’impatto iniziale non si ripete, se l’avvenimento non resta contemporaneo […] Occorre che riaccada cioè quello che è accaduto loro in principio: non “come” è accaduto in principio, ma “quello che” è accaduto in principio: l’impatto con una diversità umana in cui lo stesso avvenimento che li ha mossi all’origine si rinnova […] Nel rinnovarsi del primo impatto – e perciò della sorpresa della corrispondenza tra una presenza umana diversa e le esigenze strutturali del cuore – si sente il riverbero dello stesso avvenimento capitato dieci o vent’anni prima».

L’impalcatura e la Croce

Come raccontare questo incontro e allo stesso tempo il punto di incontro tra genitori e figli, con le altre famiglie, con noi qui? Cosa ci porta in ogni stanza e ci riporta al cuore di questa grande impalcatura di legno che edifica l’opera come una madre e un padre edificano le impalcature attraverso le quali i figli possono crescere e a loro volta essere edificati? Cosa penetra, pervade e riempie questa esperienza?

Claudio Tadiotto ha passato insieme alla famiglia “affidatagli” un pomeriggio d’inverno al mare, e ci ha restituito quell’impatto iniziale nella loro gioia di tenersi per mano, «il senso di libertà e affidamento reciproco» baciato da un raggio di sole che filtra dalle nuvole. Carlo Steiner ha catturato l’inesorabile e inevitabile filtro della croce – la fatica, il sacrificio, «ma non è il sigillo della condanna, è la porta stretta per un nuovo inizio» – che le madri e i padri incontrati condividono nell’amicizia delle altre famiglie sperimentando quella con Dio, «è l’amicizia che desidero anche per me».

Un amore “accadente”

Dino Quartana ha scolpito nel ferro l’esigenza di libertà e compimento originata da ogni ferita, ogni rottura. Daniele Mencarelli ha trovato le parole per raccontare quel sì «che i cristiani chiamano Grazia», che precede ogni accoglienza e senza la memoria del quale la pura disponibilità è destinata fatalmente ad esaurirsi: «La nostra umanità ha bisogno di nutrirsi di un amore “accadente”, che si renda incontrabile nel presente. Non possiamo accontentarci di un participio passato».

E poi c’è Luca Gastaldo, una pittura capace di fare luce nell’estremo dolore, «si fa fatica a stare in profondità, ma è proprio in quella condizione che avverti la necessità della luce», ci sono le corde con cui Beatriz Zerolo ha ricostruito la trama di rapporti «basati sulla fraternità, come germe di una società più umana» e quello che ci vuole per accogliere al di là dell’inclinazione personale, «altro, ci vuole l’incontro con una luce, con una sorgente di bene». C’è Matteo Negri che con l’istallazione (Approssimativamente) Mille stelle e oltre è riuscito a proporci «l’immersione in un’esperienza in cui convivono i tagli (le ferite) e la luce che regala una prospettiva di superamento e di sublimazione», evocando tutte le persone accolte, i loro racconti così diversi e colmi di ricchezza umana».

L’amore al destino è un brano jazz

C’è anche la musica, quella di Maurizio Carugno per cui «l’amore al destino all’altro, alla sua libertà, alla sua diversità, può richiedere il sacrificio di fare un passo indietro, analogamente a quanto accade suonando un brano di jazz, quando sei sfidato a seguire», di Marcelo Cesena per cui «tutto comincia dunque dal SI», che è la nota dominante del suo brano, e finisce con il FA, «il father impastato con il nostro “sì” a formare un legame d’amore».

E poi ci sono Constanza Lopez, «senza parole» di fronte all’abbraccio «pieno di tenerezza» con cui Dio attira a sé madri, padri e figli lasciando «all’uomo la libertà di lasciarsi abbracciare. Chi accoglie in casa un bambino deve avere questa disponibilità di animo, che è l’opposto del possesso»; Lara Leonardi che in quella casa ha «respirato una rigenerazione dell’umano da cui è derivata una rigenerazione della vena artistica che mi ha commosso», «mi sento figlia di un Padre che attraverso i volti di quelle persone mi è venuto a cercare»; Marie Michèle Poncet che dice la cosa più vera, se vero è che la verità non ha altro luogo, altra casa che non sia in “quello” che è accaduto: «Io ho bisogno, abbiamo tutti bisogno di incontrare persone così, testimoni nei quali possiamo scorgere il realizzarsi di questa impossibile corrispondenza». E c’è Giovanni Scifoni, che quando incontra e racconta la famiglia non ha bisogno di alcuna presentazione.

«Come bimbo tra le braccia del padre»

Far parlare, vedere, mostrare famiglie per l’accoglienza, cercare l’istante in cui nulla di “quello” che è accaduto in quarant’anni – a centinaia di figli e genitori, in luoghi, momenti, condizioni diversissime – viene perso, il momento che resta evento presente e familiare a chi lo incontra: eccola, la mostra del Meeting. Capolavoro e dimora di nuova umanità, scriveva Giussani nel ventennale della Fondazione, messaggio che introduce alla grande piazza del padiglione a Rimini:

«Il vostro esempio illumina per me la strada del futuro: una familiarità – o fraternità – che si apre in un abbraccio senza remore. Così vi raccomando di non smettere mai di accogliere il gesto di Cristo coi bambini che incontrava. Se Lui, il Signore si è chinato sui più piccoli per segnare la strada ai grandi, voi che fate lo stesso siete resi segno di una novità che come onda si dilata di famiglia in famiglia, dalla più prossima alla più lontana, in un movimento che è inizio di una società più umana perché fatta di persone appassionate al destino degli uomini – dareste la vita per uno solo di essi! -, avendo voi conosciuto il Fattore che dà la vita e il respiro ad ogni cosa. Così che chiunque incontrandovi si senta finalmente a casa, cioè ospitato e sicuro come bimbo tra le braccia del padre».

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