Maturità. Avere diciotto anni e scrivere dell’atto di «polverizzazione» di Rebora nell’opera dell’amore divino: si può fare, e bene

Un giovane del liceo don Gnocchi di Carate Brianza ha scritto una tesina su un argomento difficilissimo da trattare. Ma lo ha fatto con una profondità esemplare

Jacopo Napolitano, maturando della V Classico al Liceo Don Gnocchi di Carate Brianza, ha scritto una tesina su un argomento difficile: “Il voto di polverizzazione di Rebora”.  La tesina racconta della trasfigurazione di Clemente Rebora, che culminò con un atto di sottrazione dal mondo e di donazione totale di se stesso in favore dell’opera divina da parte del poeta. Rebora, cui fu diagnosticata la «mania dell’eterno», dopo un lungo percorso di conversione, fu ordinato sacerdote e, nel 1936, emise il suo voto di «polverizzazione» per chiedere di essere strumento nelle mani dell’Eterno. Il giovane Napolitano ha affrontato la poetica di Rebora a partire dal “singolare” voto che fece a Dio. Il suo lavoro merita di essere letto, non solo per quello che scrive, ma anche perché è un notevole esempio di come a diciotto anni si possa essere abbastanza liberi, curiosi e saggi per trattare con grande profondità un’esperienza umana e letteraria che mondo, media e potere farebbero volentieri a meno di trattare, se non superficialmente.
Di seguito pubblichiamo la tesina. 

CLEMENTE REBORA. UN VOTO DI POLVERIZZAZIONE
Voto emesso, sub gravi, da Clemente Rebora, approvante il superiore (giugno 1936): «Mio Signore e mio Dio, faccio voto di chiederti in ogni tempo la grazia di patire e morire oscuramente, scomparendo polverizzato nell’opera del tuo amore, così sia. Ogni atomo di me stesso, e ogni attimo che mi è concesso, sia amore del tuo cuore, riconoscenza e lode del tuo amore, tua vittoria e in tua gloria o Gesù Amore, mio Signore e mio Dio».

FRAMMENTI LIRICI
Giovanni Boine saluta la pubblicazione dei Frammenti, nella seconda metà del giugno 1913, riconoscendo per primo alla poesia reboriana la sua statura: “qui c’è una fonte viva; qui c’è anima e un uomo. […] Quasi ogni verso qui è non sai se l’elegia o il peana della vita breve e dolorosa di ogni giorno, la quale […] è pregna dell’infinito […] il ritmo stesso dell’universo”. L’intera vicenda poetica ed esistenziale di Rebora è sintetizzabile come una profonda tensione tutta verticale, che solo dopo la conversione si scopre, riscopre, preghiera.

I Frammenti Lirici sono “un vortice di accensioni che conferiscono una violenza espressiva, e spesso deformante, espressionistica, al linguaggio. C’è in queste poesie qualcosa che sembra aggredire il lettore, un fuoco di inquietudine che lacera ogni composta dignità acquisita dal linguaggio poetico e mette in mostra asperità, spigoli, sgradevolezze. […] Una violenza verbale, un tono musicale che si torce su se stesso con strappi di un’evidenza feroce”. (Luzi) L’intera raccolta risuona di questa “aggressività stravolgente della parola”. (Luzi)
La nozione di espressionismo è adeguata solo recuperando il suo significato di una vitale dissoluzione della lingua come specchio di una parallela “dissipazione del mondo”. Da questo punto di vista, il linguaggio “dissipato” dei numerosi Frammenti che rappresentano la rovina di un mondo può definirsi espressionistico. Questa violenza verbale nasce da un corpo a corpo fra io e il mondo, fra l’eterno e il transitorio, Rebora è stato quindi accostato alla categoria dell’espressionismo stilistico per la carica di violenza deformante con cui aggredisce il linguaggio, lo spinge a farsi azione e quasi lo scaglia contro la realtà. Questa violenza, ha precisato Contini, investe soprattutto l’area del verbo sollecitandolo “alla rappresentazione dell’azione invece che alla descrizione”. La parola cerca di abbracciare la vita senza definirla, incarnarsi nelle cose senza richiuderle: tutte le cose gridano e possono gridare attraverso questa nuova parola.

L’intima matrice della sua poesia è quindi una ferita, una διαλεξις, così scrive in una lettera del 1911: “Mi sbatto nel contrasto fra l’eterno e il transitorio…sprizza una scintilla di veemenza che si esaurisce nell’accensione della natura e degli uomini e nell’infinità che mi circonda; e vorrei allora giovare ed elevare tutto e tutti; smarrirmi come persona per rivivere nel meglio o nel desiderio di ciascuno; essere un dio che non si vede perché è negli occhi medesimi di chi contempla, essere un’energia che non si avverte perché è nel divenire stesso d’ogni cosa che esiste, perché si ricrea in ogni attimo”. Di fronte a questo mondo frammentato, esplode la necessità di un’infinita adesione. L’unica felicità realizzabile hic et nunc (in questo nunc tanto caro al poeta!) è quella di giovare scomparendo, “vorrei amare / e giovando dissolvermi in voi (Fr. II) . Affiora nella raccolta una “gagliarda bontà” (Fr I) che non risuona della religiosa consapevolezza della carità, della intrinseca necessità di “fare da concime” ( “grazia m’è data di far da concime”, Curriculum Vitae). Negli ultimi due anni della sua vita, costretto a letto dirà: “Quanta profonda sapienza cristiana nell’Ave Maria! […] Nel nunc si risolve tutta la nostra vita religiosa; se fossimo perfetti nel nunc avremmo risolto tutti i nostri problemi. Solo il nunc è in mano nostra, e quindi anche l’hora mortis, che diventerà così l’ultimo nostro nunc”. Ecco allora che nunc e l’hora mortis vengono a coincidere, nella inestinguibile volontà di morire in ogni instante, per far rinascere ogni istante, ogni nunc.

Frammento I
Testo proemiale, che esplicita il programma poetico della raccolta attraverso tre momenti: proposizione della materia (vv. 1-16), finalità dell’opera (vv. 17-29), congedo con invito al lettore (vv. 30-35). Nella prima parte osserviamo la vita eguale e diversa nel suo urgere tra contrasti e opposizioni di cui non è possibile cogliere il senso e che lasciano nel cuore una paurosa angoscia. Non c’è spazio per l’incanto e gli abbandoni della contemplazione perché nel momento in cui lo si scruta, è perduto il presente con il suo precedere irrevocabile. Al verso 17 affiora la risposta del poeta a prodigare tutto se stesso a beneficio degli altri, in una bontà operosa e in una passione capace di sentire spiritualmente la verità delle cose, ristorando -benefica aria- un’umanità affaticata e delusa. In una lettera del 12 febbraio 1912 Rebora commento così questa sua propensione, ancora ingenua, al dissolvimento di sé per la nascita dell’altro: “questa gagliardia […] m’è nata dall’oblio di me, o meglio, dal risentirmi negli altri […] come bontà concretissimamente operosa e svegliatrice; dal volermi quasi dissolvere […] in ciò che vorrei divenisse, nel perdere me […] in molte vite che siano più di me. […] I miei versi vorrebbero anche dire qualcosa di ciò”. In questa prospettiva si comprende il congedo della poesia: il canto di Rebora nasce per morire immediatamente, nasce per dissolversi, a beneficio dell’altro.

L’egual vita diversa urge intorno;
cerco e non trovo e m’avvio
nell’incessante suo moto:
a secondarlo par uso o ventura,
ma dentro fa paura.
Perde, chi scruta,
l’irrevocabil presente;
né i melliflui abbandoni
né l’oblioso incanto
dell’ora il ferreo battito concede.
E quando per cingerti lo balzo
– sirena del tempo –
un morso appéna e una ciocca ho di te:
o non ghermita fuggi, e senza grido
nei pensiero ti uccido
e nell’atto mi annego.
Se a me fusto è l’eterno,
fronda la storia e patria il fiore,
pur vorrei maturar da radice
la mia linfa nel vivido tutto
e con alterno vigore felice
suggere il sole e prodigar il frutto;
vorrei palesasse il mio cuore
nei suo ritmo l’umano destino,
e che voi diveniste – veggente
passione del mondo,
bella gagliarda bontà –
l’aria di chi respira
mentre rinchiuso in sua fatica va.
Qui nasce, qui muore il Mio canto:
e parrà forse vano
accordo solitario;
ma tu che ascolti, recalo
al tuo bene e al tuo male;
e non ti sarà oscuro.

Frammento XXXVI
Nell’autunno 1910 Rebora inizia la sua irregolare carriera di “professoruccio filantropo” e “professore senza cattedra”, come egli stesso si definisce. Fino all’estate del 1911 è impegnato nel ruolo di supplente presso le scuole tecniche di Treviglio, che raggiunge quotidianamente in treno da Milano. Il poeta avverte l’incarico particolarmente gravoso nella malebolgica quotidianità cittadina: “la stanchezza è dovuta a qualche anno di sfruttamento delle mie energie e all’attuale foga della mia professione, nella quale mi prodigo a piene mani”. Il panorama in cui si muove è un panorama profondamente umano di “di passione accorata e contenuta, ove converge tutta la tragica disarmonia fra anima e vita, e tutta l’indicibile fatalità quotidiana, solitariamente amata e intensamente sofferta. […] Eppure, da tutto ciò mi scaturisce una bontà sempre più profonda, e una penetrante simpatia per tutto quello che è insoddisfatto quaggiù”.

Nella macrostruttura dell’opera, questo frammento è centrale per collocazione, il verso 25 diviene quindi il verso centrale di tutta la raccolta, verso a cui tutta la raccolta tende. Il venticinquesimo verso è il verso della trasfigurazione, dove tutto viene riacceso -trasfigurato, ossia cambia immagine- in seguita alla programmatica dissoluzione del poeta: da anonima vittima sacrificata a un mondo che non lo vuole e non gli appartiene, il poeta si dissolve beneficamente nella realtà per riaccender la dall’interno. L’orizzonte iniziale non muta ma é la tonalità a trasformarsi da un minore depressivo a un maggiore trionfale: gli stessi temi e motivi iniziali vengono ripresi con opposta carica emotiva tramite un sistematico riutilizzo dei tasselli e rovesciamento semantico.

Tutti i Frammenti tendono inevitabilmente a questa trasfigurazione.

Nell’avvampato sfasciume,
tra polvere e péste, al meriggio,
la fusa scintilla
d’un denome bigio
atterga affronta assilla
l’ignava sloia dei rari passanti,
la schiavitù croia dei carri pesanti;
torcon gli alberi a respiro
l’ombra e le foglie sui rami e sui tronchi
i muri abbassano palpebre
e spràngan le soglie nell’arido giro
del losco sfasciume.
Erra, tra polvere e péste,
il gonzo pecorume
dei regazzi di scuola
e,palloncini sugli spaghi, oscilla
dai corpi smilzi il vuoto delle teste:
dietro mi stringo con passo caduto,
vittima che si immola
al sacrificio muto.
Sbirciano i passanti,
sbirbònano i cavallanti,
e dalla loro scontentezza
nessuno vorrebbe il mio officio.
Ma chi nel borro impeciato
sorger libero e terso mi vede,
e fuggire dal fiato e dal piede
l’arso demone bigio?
Sgorgo, inalveo, verso
fra murmuri e spruzzi al meriggio
nell’aria l’effuso tesoro
del vivido corso immortale:
risbaldiscono i passanti,
schioccano i cavallanti
dai carri nei mozzi sonanti;
gli alberi ondeggian con verdi richiami
l’ombra e le foglie dai tronchi e dai rami,
radiose pupille dai muri alle soglie
s’aprono al fiotto vitale
del soavissimo fiume
che stilla e s’assapora
nella freschezza irrequieta
dei ragazzi di scuola,
nell’ascesi segreta
del mio nume che si immola
al sacrificio muto.

Frammento LXXII
Con un catalogo di immagini simboliche, la cui forza è accresciuta dalla nudità francescana dello stile, Rebora sintetizza il succo di una vicenda poetica conclusa e insieme espone la volontà di tradurla in esperienza di vita. Egli si offre dunque come aratro all’impatto con la terra, come sponda all’esterno del mare: si schiera in prima linea, sgrava con disinteressata bontà la fatica di altri. Ciò che è rimasto del poeta è espresso dall’epigrafe latina: “quasi niente di sé”. Il frammento sancisce definitivamente la scelta di dissolvimento del poeta.

Nihil fere sui

Son l’aratro per solcare:
altri cosparga i semi,
Alatri educhi gli steli,
altri vagheggi i fiori,
altri assapori i frutti.

Son la sponda per il mare:
altri assetti le navi,
altri spinga le prore,
altri diriga il viaggio,
altri tocchi le mete.

Il mio verso è un istrumento
che vibrò tropp’alto o basso
nel fermar la prima corda:
ed altre aspettano ancora.

Il mio canto è un sentimento
che dal giorno affaticato
le notturne ore stancò:
e domandava la vita.

Tu, lettor, nel breve suono
che fa chicco dell’immenso,
odi il senso del tuo mondo:
e consentire ti giovi.

MANIA DELL’ETERNO
Il ricovero in un ospedale psichiatrico “fu il mio invilimento e avvilimento giunto all’estremo quando, al tempo di Caporetto, fui inviato al ricovero di Reggio Emilia. Transitando nella notte ghiacciata per la stazione di Rubiera, credetti di essere vagamente scesi finché il convoglio proseguiva il suo corso e io rotolai sulla banchina, lucciconi di stelle e di ghiaccioli sul vento. Poi di nuovo, mi ricordo di Mombello. Lì un nemico mi consente di accompagnarlo in una visita che egli faceva per tutti i reparti e padiglioni. Poi lo psichiatra a Reggio che mi diagnosticò, forse sentendomi parlare, la definì come mania dell’eterno”. Mario Luzi sottolinea come questa malattia “spiega l’energia dirompente, l’urto con il mondo, la tensione etica e di pensiero che diverrà poi tensione e scelta religiosa”.

Rebora si trova di fronte alla scelta estrema, “dire sì, dire no, a qualcosa che so”. Tutto tende alla trasfigurazione: come le parole dei Frammenti, così ora la vita di Rebora tende alla trasfigurazione per poter toccare la propria verità. Questo sentimento è ben espresso dalla lirica Sacchi a terra per gli occhi:

Qualunque cosa tu dica o faccia
c’è un grido dentro:
non è per questo, non è per questo!
E così tutto rimanda
a una segreta domanda…
Nell’imminenza di Dio
la vita fa man bassa
sulle riserve caduche,
mentre ciascuno si afferra
a un suo bene che gli grida: addio!

Il poeta troverà risposta a questa mania dell’eterno, ossia una follia dovuta alla tensione esclusivamente verticale della sua voce, nella sua conversione. Rebora è giunto alla profonda consapevolezza (già profondamente intuita nei Frammenti Lirici) che per ascendere occorre scendere, come ricorda nei primi versi del Curriculum Vitae.

CURRICULUM VITAE

Il Curriculum Vitae, pubblicato nel 1955, è la ricapitolazione dei tanti nunc della vita del poeta. Il prologo apre sulla tragica situazione del poeta, costretto a letto da una grave infermità:

Lo Sposo ancor non viene; e il viver mio
scende infermando, ma il calvario ascende

In questi primi due versi è già presente l’intera traiettoria del Curriculum: una tensione verticale che ancora sopravvive dall’intima necessità giovanile, ma che è consapevole che per ascendere occorre scendere, dissolversi secondo la poetica del suo voto.

*

Gli anni giovanili sono anni di solitudine, anni in cui il poeta non riconosceva ancora la propria radicale appartenenza alla Croce, perché in fondo (“ma bisognava pur esserlo in cima”) questo è il Curriculum Vitae, la storia di un’appartenenza alla sofferenza della Croce.

ammiccando l’enigma del finito
sgranavo gli occhi ad ogni guizzo;
[…] dentro gemevo, senza Cristo:
Sola, raminga e povera
Un’anima vagava.

Sono anni segnati dal “desiderio di un bene assente” (San Tommaso), anni di profonda ricerca e angoscia esistenziale, segnati da una “insaziata fantasia”, che solo ai vv.240-241 verrà a rimare con Maria, dove la ragione è accolta in un abbraccio materno dalla fede, indicando il giusto termine della tensione giovanile.

*

Il poeta si sottrae all’inganno del mondo, riconoscendo un’inadeguatezza rispetto alla falsa vita che lo circonda.

Un guasto mi minava in basso,
un lutto orlava ogni mio gioire:
l’infinito anelando, udivo intorno
nel traffico o nel chiasso, un dire furbo:
Quando c’è la salute c’è tutto;
e intendevan le guance paffute,
nel girotondo di questo mondo.
Ribellante gridava la mia pena:
ho sbagliato pianeta!

È il periodo della pubblicazione dei Frammenti Lirici, anni in cui il poeta si oppone alla falsa beatitudine dei furbi, nei Frammenti chiamati “scellerati buoni”, “ilare gente codarda”, “civil risma di eroi”. La contraddizione del poeta esplode nella parola “ribellante”, dove risuona tutto il tragico dramma virgiliano di una mancata adesione alla fede: “quello imperador che là su regna / perch’io fui ribellante alla sua legge / non vuol che’n sua città per me si vegna” (Inf. I, 124-126). Senza grazia di Dio non si ha accesso alla storia, alla vita, si è su un altro pianeta.

*

Il testo segue gli anni della guerra, dove “Moloch faceva pasto grasso” e il poeta era “spatriato quaggiù, Lassù escluso”, arrivando fino ai primi germogli della conversione.

Nella civil asfissia,
architettando il diavol suo scompiglio,
preso dall’artiglio dell’io
saggezza da ogni stirpe affastellavo,
a eludere la Sapienza:
e quale sgretolio intanto!
Non come fibre fuse in un sol tronco
I miei pensieri, ma fascio di rami
Cui rotto il laccio ognuno a sé ritorna.
Quando morir mi parve unico scampo,
varco d’aria al respiro a me fu il canto:
a verità condusse poesia.
Però non ogni canto è buon respiro,
né tutti i versi fan poesia.

La salvezza non è nella ragione lasciata a sé stessa, ma nel suo piantare le radici nel legno verde della croce, sfuggendo “all’artiglio dell’io”: il male peggiore è un schizofrenico rinchiudersi dell’io, dove il “laccio rotto ognuno a sé ritorna”. Il “varco d’aria” è offerto dalla poesia, che condusse sì a verità, ma non era ancora preghiera.

*

Quasi maestro agli altri mi porgevo;
ma qualcosa era dentro me severo:
Ferma il mio dire, se non dico il vero.
E un giorno –nel salon pieno quant’occhi!-
Il discorso iniziato venne meno
In una turbazion vicina al pianto:
la Parola zittì chiacchiere mie.
La Provvidenza sue vie dispose:
mi fece attento a Pietro e alla sua Chiesa;
dei martiri la Fede venne accesa.

Questo passaggio riferisce un episodio autobiografico del 1927, cosi il poeta lo ricorda nel suo diario: “9 lezioni (sulla religione di Roma e la donna) andarono bene: volevo finire così, con un accordo in do maggiore, quasi a testimonio del perfetto equilibrio della mia vita! Invece fui pressato a tenerne una 10 di chiusura e insieme di riattacco al corso che avrei tenuto l’anno di poi, sulla religione di Cristo e la donna: io sentii, preparandomi, che non ero più sicuro di me, che qualcosa si preparava su cui io ero all’oscuro. Venne il giorno: io avevo da poco iniziato il mio dire e lessi il verbale dei Martiri Scillitani: ed ecco mi prese una commozione tale che non potei più proseguire e a stento non scoppiai in singhiozzi palesi. Il pubblico attonito –data la mia cosiddetta “facoltà di parola”- stette in silenzio solenne, per parecchi minuti. In fine io mi levai come folgorato di pianto – e pensarono i più ch’io mi fossi sentito male per l’eccessivo lavoro. Da quel momento Dio mi tolse il dono della parola in pubblico”.
Torna il tema della follia, assumendo però i caratteri della paolina follia della Croce: tutto il logos umano di Rebora ammutolisce, diventa nullo davanti all’emergere della Fede. La conversione è matura.

*

Il racconto più esteso del Curriculum è l’ultimo tassello al mosaico della conversione. È il racconto di uno smarrimento durante un’escursione in montagna, svolto nei termini di una novella fra il bucolico e il drammatico. Si racconta come Rebora durante una lunga ascesa in montagna, quasi fosse un Purgatorio, durata un giorno e una notte, incontrò ad un torrente un gregge di capre e una pecora con il suo agnellino poppante; continua “su su per l’asprezza” finché si ritrova immerso nella nebbia senza più saper che fare; torna, si smarrisce, ansima, ritrova il branco e finalmente “divalla”.

Mentre ritento, smarrito, ogni varco,
dolce il belato prossimo mi trema:
si dirada il velario, filtra luce:
dentro vapori si profila il branco,
e sulla riva al vaneggiar dell’acqua
in un tremore di lane bagnate
scorgo il belante alla pecora accosto:
d’una carezza sfioro il roseo vello
con l’anima in un bacio. Ora c’è via;
e divallando per la sera chiara,
sosta fec’io a una dimora buona:
madre con bimbo su una soglia stava.
Nel proseguir poi lieto del cammino,
la pecora pensando e l’agnellino
presagio sorse nella fantasia:
Ecce Agnus Dei (mi dissi?) e per Maria.

Così commenta Rebora nel suo diario: “Finalmente, quando men o cercai e più seguii quel richiamo che non cessava mai, quando mi dissi pronto ad accettar quello che mi sarebbe aspettato e quasi non m’aspettavo più di uscirne-ecco a pochi passi profilarsi il gregge intorno e in riva a un vaneggiare che io credetti d’abisso ed era invece un laghettino annullato dal fumo dei vapori- ed ecco l’agnellino (che da qualche tempo s’era taciuto) tremante, e soavissimamente stretto in patimento a sua mamma: mi pare ch’io mi inchinassi a genuflettermi e gli mandai un bacio, sfiorandolo di carezza, sulla tenera lana che trapelava il roseo delle carni, rorida anzi goccinante. Dopo, trovai la via giusta, pericolosa ma non più pericolante. E giunto al fondo dell’alta valle, trovai un bimbo stretto alla sua mamma accanto a baite”.

*

Il Curriculum giunge infine al suo intimo cuore: la conversione.

Fu la Madonna a prendermi per mano,
al Figlio ardente mi portò pietosa,
al felice patire di Cristo
che trasfigura il viver di quaggiù.

Questa è la summa della poetica reboriana, quel voto di polverizzazione dell’io giunge al suo pieno maturamento: l’annullamento del poeta, intuito nei Frammenti Lirici, è accostato al patire di Cristo, che è detto “felice” perché trasfigura. Questa è la vera portata del messaggio reboriano, l’annullamento in Cristo trasfigura la realtà, ossia cambia immagini, crea la vita vera dopo la morte apparente (si veda il processo di trasfigurazione, ancora ingenuo, frammento XXXVI). Nel 1934, il giorno della festa dell’Assunta, giorno in cui riceve la tonsura, così scrive:

Col tuo amore patire,
nel tuo patir amare,
in tutto scomparire,
dal nulla in Te tornare.
Oh di Gesù Mamma mia
fa che sia, così sia.

*

Il racconto chiude con l’inizio della nuova vita, grazie al “sommo genio” (Rosmini) che “s’annientò nel Cristo”, Rebora divenne “infante a scuola del Vivente”. La sua vita è stata trasfigurata. “Dopo aver tanto agognato alle cime, / e perso vita per viver sublime, / grazia m’è data di far da concime”.

ASPIRAZIONI
Penultima sezione del Curriculum Vitae, dove viene riportato il voto del giugno 1936:

Ogni atomo di me stesso,
ogni attimo che mi è concesso,
sia amore del tuo Cuore,
riconoscenza e lode del tuo Nome.

Una lettera del 29 dicembre 1922 al fratello Piero, così dice: “Il mio pericolo sta nel prodigarmi comunque, quasi non mi paresse d’agire se non distruggendomi, e per un’urgenza […] ch’io sento di scomparire come alimento in altrui”. Questa aspirazione segna il compimento dell’intera parabola poetica ed esistenziale di Rebora, da sempre intuita, ma se “anela, quaggiù è poesia / ma santità soltanto compie il canto”. L’aspirazione di concedere ogni atomo e ogni attimo, ogni carne e ogni tempo-cioè storia- è compiuta: la sua storia più non gli appartiene, solo così trasfigura, diventando vera vita.

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