Marina Corradi – Derubati dell’attesa

Tratto dal n.14/2012 di Tempi

Uno splendido marzo. Io non me ne ricordo di così caldi, a Milano; e luminosi, e con il cielo così terso. Accanto al Cimitero Monumentale i pioppi sembrano essere stati presi alla sprovvista: in pochi giorni hanno germogliato delle piccole foglie di un verde chiarissimo, acerbo – come donne che si vestono in fretta, per una festa arrivata prima del tempo. Gli alberi sotto casa invece sono ancora spogli, e impressiona il sole alto, sotto ai rami nudi. Mi trasmettono una confusa inquietudine – come di qualcosa, nell’orologio regolare delle stagioni, che non gira come ha sempre girato. Una splendente primavera, davvero. Precoce, trionfante sui toni spenti delle nostre strade e dei nostri cappotti. Eppure, ho addosso come il vago rimpianto di qualcosa che, quest’anno, è mancato.

È mancata la vigilia. Sono mancati quei giorni ancora freddi in cui però vedi che il sole pallido si fa più vigoroso; e, nell’aria tagliente, l’impercettibile farsi avanti di un odore nuovo, di terra bagnata, di erba. Sono mancati i giorni in cui, nel gelo che morde, alzi gli occhi e sorprendi sui rami le gemme dure, gonfie della loro promessa. Quelli in cui, benché sia ancora ufficialmente inverno, sfrontatamente compri al mercato un geranio, rosa: e lo esponi sulla ringhiera del balcone, come una sfida. È mancata l’attesa. Quella terra di nessuno incerta come un’aurora, in cui già non è più buio, ma ancora non è giorno.

L’attesa, che delle cose belle è la parte più bella: il pregustare ciò che si annuncia, ma non è, ancora; lo stare attenti, tesi, ai primi segni d’avvento del tempo nuovo – quelli che magari altri, distratti, non vedono, e invece tu riconosci e serbi in te come un tesoro. È mancato il tempo della vigilia, quello che colma, quando si è bambini, le settimane che mancano a Natale; o quel silenzio che riempie il sabato santo – prima che si sciolgano, la notte di Pasqua, le campane.

Nelle vetrine, già i colori sgargianti dei costumi da bagno. Che meravigliosa primavera. E però ci cammini dentro incerta, col vago senso di essere stata, quest’anno, derubata della sottile gioia della vigilia; quasi più grande di quella del compimento, gravida com’è di desiderio. La vigilia, che non è ancora possesso: non è ancora quella persona fra le braccia, o quel dono nelle mani. (Perché già nell’istante in cui ti stringi addosso ciò che volevi tanto, c’è un finire. Come nei Natali da bambina, al pomeriggio, davanti a tutti i regali che desideravi: quella punta di amaro addosso, come se poi niente fosse all’altezza del tuo desiderio). Quest’anno mi è mancato il sapore acerbo del primo segno. Il bucaneve che nei prati ancora duri di gelo spunta, piccolo e audace, la corolla candida in quello sfarsi di fango nero; e commuove, tanto è trasparente nella sua sagoma esile il segno, tanto fedele la promessa.

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