Lo specchio di mia madre

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Da bambina ero convinta che gli specchi catturassero le immagini delle persone e le trattenessero dentro di loro, in un immateriale immenso buio deposito. E che lì in fondo nella oscurità restassero tutti i volti, tutti gli occhi, incamerati. Ero così convinta di questa mia idea che non la ho mai sottoposta agli adulti. Ero certa che mi avrebbero detto che mi sbagliavo, ma io sapevo che si sbagliavano loro. Con i grandi, pensavo, bisogna avere pazienza.

E dunque in casa nella stanza di mia madre c’era un grande specchio, alto come un uomo. Nei miei primi ricordi la mia faccia paffuta arrivava a neanche un metro da terra. Mia madre, mio padre, e i miei fratelli nell’allungarsi con l’età, tutti colti e rapiti dallo specchio del guardaroba, come lo chiamavamo. E scintillii di pacchi di Natale, tulle bianchi di abiti di Prima Comunione, gioiose valigie per l’estate, tutto è passato dentro a quello specchio. Quando mia madre è morta e la casa della nostra famiglia è stata venduta, l’ultima cosa rimasta nelle stanze vuote è stato lo specchio, in cui mi sono vista sola e un po’ triste. Volevo quasi buttarlo via, ma non ne ho avuto il coraggio. Accuratamente imballato perché non si spezzasse – «sette anni di guai se si rompe uno specchio», mi riecheggiava in testa la voce di mia madre – lo specchio è stato portato in campagna. L’ho messo in una stanza che non usiamo mai, in un angolo, appoggiato al muro. Rispettandolo, come un testimone che sa troppe cose.

E l’altro giorno sono entrata in quella stanza e mi sono avvicinata allo specchio quasi timidamente, quasi chiedendomi se dopo tanti anni mi avrebbe riconosciuta. Mentre gli stavo davanti ho allungato una mano verso la sua superficie liscia, l’ho accarezzata, pensando alla mia certezza di bambina: siete tutti qui dentro, ancora…

Nella penombra lo specchio impenetrabile mostrava solo la mia figura. Allora mi ha preso l’impulso di spalancare le imposte sempre chiuse di quella stanza, di fare entrare il sole di maggio, a fiotti. Avrei voluto anche voltare lo specchio verso il giardino, perché si riempisse del rosso scarlatto delle rose che si arrampicano sul muro del casotto, e del chiarore delle altre, accanto, pallide come la cipria, rose lunari, spalancate, sbalordite.

Avrei voluto che il verde tenero e radioso dell’erba di maggio colmasse il vecchio specchio di vita nuova. Nel magazzino buio e gremito di ombre dietro la sua superficie sarebbe stata come una folata di vento, un sussulto di vita che ricomincia, daccapo. Poi mi sono vista, mentre con i miei anni segnati sulla faccia architettavo questo nuovo gioco. Ho sorriso. Via Marina ormai lo sai, è solo vetro. Non del tutto convinta però ho richiuso le imposte e ho lasciato la stanza – voltandomi all’ultimo, mentre la porta si richiudeva alle mie spalle. Caso mai qualche ombra uscisse, tenue come vapore, dallo specchio.

Exit mobile version