L’immunità dei coriandoli

Tratto dal n.7/2012 di Tempi

Sul grigio spento del marciapiede, voltato l’angolo, una macchia di coriandoli si allarga inaspettata. Di già? Mi sembra prematuro questo segno di fine inverno. Io mi ricordo da piccola di inverni lunghi e cieli opachi, e pioggia, e solo timide spruzzate di neve che subito sull’asfalto si agglomerava in ghiaccio sporco. C’era questo lungo monotono inverno, con il gelo al mattino che tagliava la faccia e le mani; e poi finalmente un pomeriggio, dopo la scuola, l’aria era appena un po’ meno fredda, e il sole, te ne accorgevi d’improvviso, illuminava di una luce giallina le strade fino alle cinque e oltre. Nelle vetrine dei panettieri comparivano le chiacchiere, farinose di zucchero a velo; e poi per terra quelle chiazze di coriandoli, una dietro l’altra, là dove erano passati dei bambini. Infilavamo la mano nei sacchetti, estraevamo il pugno chiuso, lo spalancavamo nell’aria: fluff, una nuvola i coriandoli, che si infilavano nei nostri capelli lunghi di bambine.

E quindi già – a me sembra presto – si sono presentati i coriandoli, mentre il sole a un mese dal solstizio d’inverno comincia ad alzare la testa, e non si lascia più cacciare a letto presto, come un bambino in castigo; soffia la sua luce convalescente sulle nostre facce pallide. Da chissà quale angolo di memoria mi risale un groppo di ricordi: piedi di bambini che corrono sulle scale di pietra scura della scuola, ondeggiare di gonne lunghe rosa o azzurre di fate, cappelli a punta con le stelle e bacchette magiche nelle mani. A me, invece, mi hanno vestita da capo indiano, con il casco di penne, e l’ascia. Dilaniante invidia del cappello e della bacchetta della mia più cara amica. Trattativa: ottengo il cappello a punta con il velo di tulle celeste in cambio del casco di penne, ma sulla bacchetta l’amica non cede. Fantasmatica immagine, riflessa in un vetro della palestra, di me bambina col cappello da fata che brandisco, scura in volto, un’ascia da Sioux.

Le fate, vedo, vanno ancora molto, e quei vestiti rosa e azzurri sono uguali. Osservo le mani dei bambini per strada che frugano nei sacchetti, alzano il pugno pieno e, addosso, in testa, e nella borsa della mamma: fluff, la nuvola pastello che si allarga leggera. Anche i coriandoli sono rimasti assolutamente uguali; e il modo di lanciarli dei bambini. Probabilmente anche mio padre li gettava nello stesso modo, forse furtivamente guardando se c’era sull’uscio un certo portinaio cattivo. E le donne ingrigite che escono di chiesa dopo il rosario, anche loro lanciavano i coriandoli, alla stessa maniera. Mi meraviglia che una generazione dopo l’altra certe gioie si tramandino, immuni al tempo, alle rivoluzioni, alle tecnologie. Come minimi segni di un’impronta, nell’infanzia degli uomini, che rimane, identica. (La bambina alta un metro mi passa accanto, mi fissa dal basso, stringe il pugno nel sacchetto e con un’occhiata di sfida, lancia: fluff, coriandoli gonfi in una folata di vento).

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