«L’ignoranza degli italiani è colossale ma i nostri ragazzi sono tra i più promossi d’Europa»

Intervista a Marcello D'Orta, insegnante e autore del libro "Io speriamo che me la cavo" sulla sempre minore conoscenza della lingua italiana da parte delle nuove generazioni: «Si è creata una comunicazione gergale, una sottocultura che va a scontrarsi con la scuola. Non scriviamo e non leggiamo più, anche se abbiamo una vocazione artistica».

Un’odierna inchiesta di Repubblica riporta lo stato della lingua italiana tra i maturati del 2010. Un panorama arido, ricco di errori e di colossali ingenuità. Da “aerio” a “celebrale”, passando per “manovrazioni”. Tempi.it ha voluto ragionare sulle origini di questo dramma linguistico con Marcello D’Orta, insegnante elementare che con gli errori dei suoi alunni è riuscito a scriverci un libro: Io speriamo che me la cavo, da cui è stato tratto anche l’omonimo film con Paolo Villaggio. «Mi sono rimasti impressi due errori in particolare, perché si sono tramutati in cose positive. Come l’anacoluto di “Io speriamo che me la cavo”, che è diventato un verso. Ogni tanto lo leggo anche sui giornali. Poi penso anche al dialettale “sgarruppato”, che qui a Napoli significa “fatiscente, che va a pezzi”. Come la lingua italiana, insomma».

Maestro D’Orta, la nuova generazione d’italiani non sa più scrivere.
Partirei con un dato apparentemente contraddittorio. A fronte di questa ignoranza abissale, i nostri ragazzi continuano a essere tra i più promossi d’Europa. Questi dati non possono giustificarsi insieme, a meno che non si analizzi la situazione scolastica nazionale. Mi pare che molti insegnanti si siano abituati a questo trend, e allarghino le braccia sconsolati. “Sono tutti asini, questa è la realtà. Accettiamolo”. Mentre un tempo, una nota sul registro, una sgridata o una sospensione era vissuta dai genitori come una pena capitale, dal ’68 la situazione ha cominciato a cambiare. Adesso i genitori giustificano sempre i figli e il professore non è più libero di fare il proprio mestiere. C’è sempre l’angoscia di un possibile ricorso al Tar, di un putiferio burocratico. E gli insegnanti, che già sono sottopagati, si chiedono perché faticare tanto per patire la fame.

Quali sono le ragioni della debacle linguistica?
Con l’avvento di internet e della telefonia mobile i giovani hanno preso ad esprimersi in una maniera tutta particolare. Le “ch” diventano “k”, i “non” diventano “nn”. I ragazzi, che avevano già poca dimestichezza con la lingua, adesso la imparano ancor più faticosamente. Si è creata una comunicazione gergale, una  sottocultura che va a scontrarsi con quella specializzata e libresca della scuola. Non si scrivono più lettere a mano. E, soprattutto, non si legge più. Libri e quotidiani diminuiscono molto le proprie vendite, e questo causa una maggiore difficoltà di scrittura. E di pensiero perché, a mio parere, si pensa anche male. Non esiste più il confronto con l’autore classico, ma solo con pensieri monchi, al massimo citazioni. Lo vedo anche in chi fa della scrittura il proprio mestiere: i giornalisti, ad esempio, scrivono male. Anche gli editori hanno le loro colpe: negli scaffali di poesia trovo Ligabue e De Andrè, ma non Giovanni Pascoli e Vincenzo Cardarelli. Capisco che, se arrivano all’Università, l’italiano dei giovani rimane impacciato. Anche ai concorsi di magistratura si commettono clamorosi errori di sintassi e di lessico. Per questo problema, purtroppo, non vedo una soluzione in tempi brevi. Anzi, ho paura che andrà sempre peggio.

È alle elementari che s’impara a scrivere. Secondo lei, un ritorno al maestro unico potrebbe essere una soluzione?
Sono assolutamente d’accordo con il maestro unico. Quando lo dissi, Repubblica mi incolpò di essere retrogrado, di essermi fermato alle lezioni del libro “Cuore” di De Amicis. È vero, il maestro unico non ha tutte le competenze nelle varie discipline. Io stesso non ero un portento nell’aritmetica, e dovevo chiedere l’aiuto a qualche collega che, a sua volta, si confrontava con me in ambito letterario. Però la figura del maestro unico era un punto di riferimento psicologico fondamentale. Il bambino ha bisogno, in quella fascia d’età, di una figura che reciti la parte della mamma fuori casa. Era un collante virtuale. Invece, l’alternarsi di insegnanti provoca frammentazione psicologica e affettiva. Cosa che non avviene più tardi, nella scuola media e superiore.

Gli ultimi dati del Miur sulle iscrizioni alle scuole superiori vedono un aumento delle preferenze per gli istituti tecnici e professionali, a fronte di un calo dei licei. Perché?
Il professionale permette sbocchi lavorativi maggiori. La scuola di un tempo guardava relativamente poco la società. Oggi, invece, non si può farne a meno. Il pezzo di carta, che sia un diploma o una laurea, non serve se non ti introduce immediatamente nel mondo del lavoro. Una volta uscivi dal liceo classico, ti iscrivevi all’università, e seguivi un lungo percorso di formazione. Si supponeva che lo studente non avesse l’urgenza di trovare uno stipendio per vivere. Per carità, non era sempre così: io stesso ho scelto di fermarmi all’istituto magistrale, perché eravamo otto in famiglia e dovevo lavorare il prima possibile. Non feci neppure il quinto anno propedeutico per accedere agli atenei. Feci immediatamente il concorso. E anche oggi, la richiesta di un impiego è pressante. E gli istituti tecnici, che formano in poco tempo a un lavoro manuale, sono i più gettonati. Il futuro è vicino a internet e ai computer, mentre il latino e il greco sono diventati un’istituzione elitaria. E lo dico con rammarico, perché l’Italia è un paese dalla grande vocazione artistica. Ma, si sa, è tutta l’Europa a non passare un bel momento, ed è giusto indirizzare i figli tenendo in considerazione il domani.
twitter: @DanieleCiacci

Exit mobile version