L’aborto all’Onu. I termini di un inganno planetario

Si scrive salute riproduttiva femminile e tutela della maternità. Si legge contraccezione e ricorso più ampio possibile all’interruzione di gravidanza. Ecco come l’Onu prova a far passare l’aborto come diritto umano inviolabile

In questi giorni ha avuto grande risonanza la risoluzione adottata il 21 settembre 2012 dal Consiglio dei Diritti dell’uomo presso le Nazioni Unite, titolata “mortalità e morbilità materna prevenibile e i diritti umani”, mediante la quale avrebbe trovato ingresso a livello internazionale un nuovo “diritto all’aborto”, seppure con modalità subdole.

Un diritto del genere è ovviamente fortemente contrastato a livello internazionale, specie dai paesi islamici e da quelli tradizionalmente cattolici, oltre che dalla Santa Sede, che presso le Nazioni Unite ha un osservatore permanente nel nunzio apostolico Silvano Maria Tomasi. Il suo riconoscimento come “diritto umano” è invece prepotentemente voluto da una intensa attività di lobbying, ad esempio da parte dell’International Humanist and Ethical Union (Iheu) – di cui fa parte, per capirci, l’Uaar (Unione Atei e Agnostici Razionalisti) – la cui presidente Sonia Eggerickx ha rivendicato il contributo dato dall’organizzazione all’odierna risoluzione.

Ma vediamo di capire di cosa si tratti esattamente e quali effetti possa produrre. Il Consiglio dei Diritti dell’uomo è un organo intergovernativo operante nell’ambito dell’Onu, ed è composto da 47 membri che hanno il compito di promuovere e rafforzare la protezione dei diritti umani nel mondo. Del Consiglio fa parte, dal 2011, anche l’Italia, che dunque è corresponsabile della risoluzione incriminata, allineandosi alla scelta fatta dagli altri paesi dell’Unione Europea. La risoluzione ha per obiettivo la riduzione del tasso mondiale di mortalità e di morbilità delle donne, nel corso della maternità. A dire il vero, essa non contiene un solo accenno espresso all’aborto, ma richiama più e più volte «la salute sessuale e riproduttiva» e «i diritti legati alla procreazione» delle donne. In particolare, si legge nel testo, «il Consiglio accoglie con soddisfazione l’elaborazione, da parte dell’alto commissario Onu per i diritti umani, Navi Pillay, di una Guida Tecnica, diramata in luglio, riguardante il perseguimento dell’obiettivo di ridurre la mortalità e la morbilità materne, mediante un approccio fondato sui diritti dell’uomo». Detta Guida include espressamente, tra le buone pratiche conformi agli obblighi scaturenti dai diritti umani, quelle di «garantire i diritti alla salute sessuale e riproduttiva», affinché in ogni piano nazionale sia «realmente assicurato l’accesso universale» a «interventi essenziali per migliorare la salute materna», come «servizi di pianificazione familiare», «gestione delle gravidanze inattese, includendo l’accesso a servizi di aborto sicuro, dov’è legale, e cura post-aborto». L’approccio alla salute materna basato sui diritti umani impone precise «responsabilità agli Stati per assicurare servizi disponibili, accessibili, accettabili e di qualità». Si sottolinea quindi che «se le leggi sull’aborto sono eccessivamente restrittive, le risposte da parte dei fornitori di servizi, polizia e altri attori possono scoraggiare chi cerca aiuto» (in tal caso, l’aiuto sarebbe quello da offrire alla donna che abortisce).

Procreazione consapevole?
In sostanza, viene affermato l’obbligo per gli Stati di dotarsi di normative che favoriscano l’accesso delle donne che lo chiedano all’aborto. Risulta quindi chiaro cosa intendano, le Nazioni Unite e i documenti che vi fanno riferimento, per diritto alla salute sessuale e riproduttiva: ossia diritto a una procreazione consapevole e responsabile, mediante uso di contraccettivi e soprattutto mediante il ricorso, il più esteso e facilitato possibile, all’aborto cosiddetto sicuro.

Nessuna attenzione è dedicata, in detta nozione, all’aborto in quanto tale, che – pur nell’assoluto tacere degl’illuminati umanisti internazionali – continua a essere la soppressione di una nascente vita umana. Una grande importanza, invece, viene assegnata all’idea di “responsabilità” della procreazione, che include anche quella di autodeterminazione della donna nello scegliere di abortire; scelta che deve trovare, nei vari paesi, un servizio sanitario adeguato che lo soddisfi (così il tema si lega anche a quello dell’obiezione di coscienza, che non deve comunque arrivare a pregiudicare l’esercizio dell’aborto).

Ciò precisato, si leggano questi passi della risoluzione adottata il 21 settembre 2012, nel corso della ventunesima sessione del consiglio Onu per i diritti umani: «È necessario rafforzare con urgenza la volontà e l’impegno politico, la cooperazione e l’assistenza tecnica a tutti i livelli, al fine di ridurre il tasso mondiale di mortalità e di morbilità materne evitabili, che è inaccettabile»; «l’utilizzo di un approccio fondato sui diritti dell’uomo può contribuire positivamente alla realizzazione dell’obiettivo, che è di fare abbassare quel tasso».

Autodeterminazione a senso unico
Di conseguenza il Consiglio «invita gli Stati a rinnovare l’impegno politico e a raddoppiare gli sforzi per garantire, pienamente ed efficacemente, il rispetto degli obblighi in tema di diritti umani (…), ivi compresi gl’impegni relativi alla salute sessuale e riproduttiva ed ai diritti legati alla procreazione (…), in particolare gli obiettivi concernenti il miglioramento della salute materna, la promozione dell’uguaglianza dei sessi e l’autodeterminazione della donna, specialmente prevedendo, nel budget nazionale, delle risorse sufficienti ai sistemi di salute, fornendo l’informazione e i servizi necessari in materia di salute sessuale e riproduttiva delle donne e delle giovani»; invita tutti i soggetti interessati (governi, organizzazioni regionali e internazionali) «a diffondere e ad utilizzare la Guida Tecnica», e l’alto commissario per i diritti umani «a elaborare un rapporto sui modi in cui la Guida Tecnica è attuata dagli Stati e dagli altri soggetti interessati, che sarà presentato al Consiglio» alle prossime sessioni.

Come si vede, l’oggetto del documento internazionale lega l’ipotesi di partenza, riguardante la riduzione delle problematiche di salute materna, alla necessità che i paesi prevedano normative e strutture idonee a consentire l’aborto, insinuando che i cosiddetti aborti illegali – e la mancanza di quelli “sicuri” – siano la causa dei problemi alla salute materna.

In sostanza, il problema della salute materna – invece di essere individuato nelle malattie legate alla gravidanza (tra le quali non può certo essere ricompresa la gravidanza stessa, neppure quella non voluta, come sembrerebbe ascoltando alcune lobbies pro aborto), e nella «fragilità delle infrastrutture sanitarie, assenza di personale preparato, ambiente medico insano, mancanza o insufficienza di servizi e attrezzature per l’emergenza medica e chirurgica», che sono le cause principali individuate dall’Organizzazione mondiale della sanità; invece di essere orientato a salvare la vita della madre e del figlio – viene ricondotto, alla fine, all’obiettivo di garantire il più possibile l’accesso all’aborto.

Esistono stime che circolano a livello internazionale, come quelle diffuse dalla rivista medica The Lancet, secondo le quali circa 350 mila donne muoiono ogni anno per complicazioni dopo il parto o per aborti in condizioni non sicure, accomunando di fatto il parto all’aborto, come se fossero ipotesi del tutto analoghe da trattare allo stesso modo, e rivendicandosi per entrambe l’esigenza di un miglioramento dell’offerta sanitaria, senza porsi soverchi problemi sul fatto che con l’aborto non si fa nascere qualcuno, ma lo si sopprime; come se il futuro bambino non fosse – a sua volta – titolare di medesimi diritti a livello internazionale volti alla riduzione della mortalità e morbilità infantili.

La realtà capovolta
Ma le stesse stime sono inattendibili, come dice il nunzio apostolico Tomasi: «Una relazione del 2010 dell’Oms dimostra che, nel corso del 2008, tre paesi che hanno permesso l’aborto “legale”, cioè, Guyana, Etiopia e Nepal, avevano un numero significativamente più elevato di mortalità materna per 100 mila nati, di tre paesi, delle loro rispettive regioni, che non hanno permesso l’aborto, cioè, Cile, Mauritius e Sri Lanka». A questa palese distorsione della realtà si aggiungono considerazioni legate genericamente ai diritti delle donne e di scelta “responsabile” della maternità; nonché all’esigenza di riduzione dell’esplosione demografica, attuata mediante la regolamentazione delle nascite, anche di quelle non volute ed anche mediante il ricorso agli aborti cosiddetti terapeutici (che non curano nulla, ma sopprimono una futura vita portatrice di handicap).

È una sorta di déjà-vu. Quella assunta dal Consiglio dei Diritti Onu pare essere la stessa dinamica che ha portato all’introduzione dell’aborto in Italia, al grido di “mai più aborti illegali”, indipendentemente dal fatto che ciò comporti, come effetto collaterale, la soppressione del frutto del concepimento. Solo che ora queste considerazioni vengono affermate a livello di diritti umani, con la forza propria di detto riconoscimento, capace di imporsi, nel tempo e nello spazio, a tutti i paesi e alle culture mondiali.

L’utilizzo della locuzione «salute sessuale e riproduttiva», dunque, non serve ad altro che a sdoganare, nell’uso del linguaggio internazionale e nell’operatività concreta degli organismi internazionali, la pratica della contraccezione e dell’aborto come diritti umani, alla pari dei diritti contenuti nelle carte internazionali dei diritti, come il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della persona, come l’eliminazione della pena di morte o della schiavitù, come il riconoscimento della libertà religiosa, come il divieto a trattamenti disumani, come il diritto di eguaglianza, quello di cittadinanza, come il diritto di fondare una famiglia, e così via. Insomma, una contraddizione in termini.

Quali sarebbero gli effetti
Vediamo quali effetti comporta un riconoscimento internazionale del diritto all’aborto come diritto umano. La risoluzione in oggetto attribuisce agli obiettivi di salute sessuale e riproduttiva, nei termini visti, le classiche metodiche garantistiche dei diritti umani, al fine di raggiungere con maggior efficacia gli scopi individuati. La teorica dei diritti umani rappresenta il più alto livello e la più alta espressione del tentativo umano di perseguire il bene stesso dell’uomo, di tutelare ciò che per lui è essenziale, al punto tale da dover essere riconosciuto e affermato come inviolabile, anche contro i diritti vigenti e scritti dei singoli ordinamenti particolari, presenti o futuri.

Detta teorica nasce infatti dopo gli orrori delle due guerre mondiali (in particolare con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino e con le singole carte costituzionali del Novecento), quando ci si è resi conto che i singoli ordinamenti positivi non erano di per sé garanzia di giustizia, occorrendo affermare, a livello sovranazionale, un numero minimo di diritti fondamentali appartenenti all’uomo in quanto tale, generalmente condivisi e comunque affermati come indispensabili per far sviluppare libertà e giustizia; un nucleo di tutele da perseguirsi indistintamente in tutti i paesi, anche in quelli ove i medesimi diritti umani siano in vario modo disconosciuti.

Quando si parla di diritti umani, insomma, il riferimento è a un orizzonte che sta oltre il mero diritto stabilito dai singoli Stati. Il riconoscimento dei diritti umani si propone di guidare ciascun ordinamento giuridico e il relativo diritto, così come tutti i singoli ordinamenti particolari ed i loro diritti, verso binari corrispondenti al contenuto di un diritto affermato come superiore, verso una giustizia che né il diritto attuale, né quello futuro, né il diritto di nessun paese, oggi o domani, potrebbe disconoscere. Si pensi quale grado di ingiustizia comporterebbe il fatto di assumere erroneamente, a livello di diritti umani, diritti contro l’uomo e il suo bene. Il massimo tentativo di giustizia per l’uomo si trasformerebbe nella più incredibile esperienza di ingiustizia che l’uomo possa mai conoscere: summus jus, summa iniuria.

L’obiettivo di influenzare gli Stati
Ciò accadrebbe qualora un diritto all’aborto venisse espressamente affermato come diritto umano. Per il momento, la risoluzione e la maggior parte dei documenti dell’Onu non sono giuridicamente vincolanti per gli Stati, a meno che gli accordi non siano negoziati come tali per gli stati che li ratificano. Così non è per la risoluzione, che è qualificabile come documento di monito o richiamo per gli Stati. Ma è evidente che l’assunzione di un tale diritto in documenti ufficiali dà il via a procedure che favoriscono e incoraggiano progressivamente l’allineamento dei vari paesi.

In sostanza, ricondurre un diritto all’aborto alla categoria dei diritti umani significa dare ad esso l’imprinting internazionale, così da avere, nei singoli ordinamenti locali, una più penetrante capacità di moral suasion. La qualificazione della pretesa come diritto umano diventa facilmente il mezzo per far introdurre nei singoli paesi nuovi diritti calati dall’alto che probabilmente non troverebbero riscontro diversamente.

Vi è poi un’altra, più incisiva conseguenza. Riconoscere un diritto all’aborto come diritto umano significa assolutizzarne la garanzia e la tutela. Quasi tutti gli ordinamenti dei paesi hanno ormai depenalizzato l’aborto e ne regolamentano – chi più, chi meno – l’esercizio, in presenza di date condizioni. In particolare, in Italia, la legge 194 è stata il frutto del tentativo (malriuscito) di bilanciare i diritti che spettano anche al nascituro con quelli inviolabili della madre. Purtroppo, di fatto, l’esperienza concreta dimostra spesso il contrario, per l’evanescenza dei motivi di salute della donna che possono legittimarlo, ivi compresi i motivi psichici e quelli legati a mere circostanze economiche.

Ma ciascun paese ben può decidere di non rendere legittimo l’aborto e ha comunque discrezionalità in ordine alle condizioni di legittimazione, che possono essere anche molto restrittive. Invece, l’affermazione di un diritto all’aborto come diritto umano significherebbe qualificarlo come pretesa garantita che ogni singolo paese deve riconoscere, tanto che – se non lo facesse – sarebbe disumano, e significherebbe pretenderne la fruibilità in termini più ampi possibili, assicurando le strutture pubbliche e i servizi che ne permettano l’esercizio.

Non si potrebbe ritenere l’aborto una pratica da evitare e da sottoporre a cogenti limiti di esercizio (di tempo e di situazioni), oppure prevedendo per esso varie restrizioni, perché ciò violerebbe l’affermato diritto umano (il documento internazionale approvato lo lascia intendere chiaramente, quando afferma che «se le leggi sull’aborto sono eccessivamente restrittive, le risposte da parte dei fornitori di servizi, possono scoraggiare chi cerca aiuto»). Si rovesciano i termini del problema. L’aborto non è un male da evitare ed eventualmente da consentire solo a date condizioni, bensì un bene da perseguire e da incentivare, sì da renderlo facilmente accessibile a chi lo voglia. Da facoltà concessa in termini di bilanciamento di diritti, diventerebbe diritto assoluto da garantire in ogni paese. Con effetti devastanti. n

* Stefano Spinelli è avvocato e autore di I diritti umani capovolti (Fede & Cultura)

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