La sperimentazione animale fra cavie che fumano e «venditori di fumo»

Il commento di Fiorenzo Conti, presidente della Società italiana di neuroscienze, all'ennesima campagna "anti-vivisezione" a favore i "metodi alternativi" di ricerca

La Lega anti-vivisezione (Lav) ha lanciato recentemente una nuova campagna contro la sperimentazione animale, questa volta per tentare di bloccare l’uso delle cavie nei test di ricerca sulle sostanze che provocano dipendenze. «Gli animali non si drogano e non bevono alcol», protesta la Lav. Ma la risposta del mondo scientifico non si è fatta attendere. La Società italiana di farmacologia – raccogliendo subito l’assenso della Società italiana di tossicologia, della Società italiana di tossicodipendenze, della Federazione italiana scienze della vita, dell’Istituto Mario Negri, dell’Associazione italiana per le scienze degli animali da laboratorio e di Research4Life – ha smentito la versione della Lav spiegando come «l’uomo condivida con i mammiferi – anche i più antichi da un punto di vista evolutivo come ratti e topi – i meccanismi neurobiologici alla base delle dipendenze: le cavie, quindi, rappresentano un modello affidabile», si legge nell’inserto settimanale “Tutto scienze e tecnologia” della Stampa.

LA CAMPAGNA. Per l’ennesima volta la Lav torna dunque a mettere in discussione l’efficacia della sperimentazione animale per la medicina, insistendo sull’urgenza di ricorrere a “metodi alternativi” di ricerca che permetterebbero – è la tesi degli animalisti – di rinunciare una volta per tutte alla barbarie della “vivisezione”. In merito alla presunta crudeltà dei test sugli animali ci pare sufficiente rimandare i lettori a questa strepitosa intervista a Silvio Garattini, direttore del Mario Negri. In quanto all’asserita “fallacia” della sperimentazione animale e alla promessa validità dei “metodi alternativi”, segnaliamo invece il commento di Fiorenzo Conti, professore di Fisiologia umana all’Università politecnica delle Marche e presidente della Società italiana di neuroscienze (Sins), ospitato oggi sempre dalla Stampa.

O È SÌ O È NO. «L’impiego degli animali nella ricerca biomedica è un tema complesso che può essere affrontato da moltissimi punti di vista (filosofico, religioso, affettivo)», scrive Conti, «ma da qualunque punto si parta nell’analisi del problema alla fine, inevitabilmente, si arriva alla questione nodale, che troppo spesso, ipocritamente, si cerca di occultare: la ricerca per la conoscenza delle cause delle malattie e per lo sviluppo di terapie efficaci deve continuare o no? Anche se a prima vista sembrerebbero esserci diverse soluzioni, di fatto, ce ne sono due: sì o no».

QUALI ALTERNATIVE? È lo stato dell’arte della nostra conoscenza, spiega il professore, a imporci questo brusco aut aut. Da una parte, infatti, è innegabile che «non tutto quello che impariamo dai ratti o dalle scimmie è direttamente traslabile all’uomo», ma «è comunque un’utilissima indicazione» (Conti nell’articolo cita proprio i risultati di una ricerca sui meccanismi neurobiologici della dipendenza). Dall’altra, invece, si pone un’aspirazione sulla quale tutti «siamo d’accordo», il sogno cioè di poter utilizzare per la ricerca «metodi alternativi all’impiego degli animali»; purtroppo però «quando si cerca di capire quali siano i metodi alternativi e si scopre che per non pochi campi di ricerca, con la parziale eccezione delle colture cellulari e dell’uso di metodi statistici più raffinati, questi semplicemente non esistono», o al massimo «sono metodi complementari», ricorda Conti.

UNA LEGGENDA METROPOLITANA. Il presidente della Sins esemplifica questa difficoltà ricorrendo all’esempio della sua materia, le neuroscienze, dove il numero e la complessità delle interazioni in gioco per l’essere umano sono tali da rendere «evidente che le colture cellulari (classico “metodo alternativo” proposto dagli animalisti, ndr) non possono far capire come funziona e come non funziona il nostro cervello», mentre «il cervello vivo e intero» degli animali da laboratorio può. Conclude Conti: dobbiamo sperare che un giorno le nostre conoscenze ci permetteranno di fare a meno dei test sulle cavie, ma per ora «affermare l’esistenza di metodiche alternative nelle neuroscienze – per esempio la mitica simulazione al computer (come possiamo simulare se non sappiamo cosa inserire nel simulatore?) o l’acquisizione delle reti nervose – è del tutto prematuro e, oggi, senza senso. Significa alimentare una leggenda metropolitana, vendere fumo e burlare la gente».

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