La riforma delle banche popolari va fatta ma senza svendere

Giusto introdurre elementi di innovazione. Ma non si può liquidare una forma societaria che lega il risparmio alle imprese e difende la sovranità sui nostri soldi

Lultima trovata del premier Matteo Renzi di trasformare le maggiori banche popolari in normali società per azioni era motivata dall’esigenza di recarsi al vertice di Davos portando un esempio dell’ennesima modernizzazione compiuta dal governo in carica. Anche il cosiddetto jobs act (provvedimento con ben altri aspetti positivi) era nato così. Questo stile di governo consente ad Angela Merkel di trattarci come scolaretti, all’ambasciatore americano di fare interviste sul Quirinale che un viceré inglese non avrebbe fatto in India, all’ambasciatore inglese di partecipare a Ballarò come protagonista della nostra politica.

Ora il decreto – un pasticcio anche costituzionale (dove è l’urgenza?) che solo un Pietro Grasso in fregola quirinalizia poteva firmare – farà la sua strada sorretto da slogan tanto chiari (ed evanescenti) quanto sono opache le collusioni e gli affari che l’accompagnano.

Ma anche al di là del merito, ben altra discussione pubblica sarebbe stata necessaria se si fosse riflettuto come il gestire problemi sistemici ed emergenze bancarie nello stesso modo con cui si sono affrontati dal 1992 al 1998 sia devastante. Si consideri solo la qualità di alcune grandi banche pre anni Novanta e l’oggi: Cariplo, Credito Italiano, Commerciale, San Paolo di Torino, Imi erano banche invidiate nel mondo, formidabili sostegni ai produttori con cui avevano intimi rapporti. Una realtà del passato che grazie alla riforma d’emergenza compiuta via Fondazioni bancarie non ha lasciato veri eredi: adesso le grandi banche spa (pure se non allo sbando come il Monte dei Paschi) hanno problemi innanzitutto con le imprese sul territorio, hanno disperso competenze irriproducibili, hanno favorito una perdita di sovranità nazionale che non ha paragoni con quel che avviene in Francia, Spagna, Germania e Inghilterra. Abbiamo assistito a un’improvvisazione di riforme che spesso si è tradotta nel modello di liberalizzazione-privatizzazione che il mio amico Giulio Sapelli chiama alla Menem-Eltsin-Prodi: svendite di interessi nazionali non solo senza vantaggi economici sistemici ma pure senza veri risanamenti patrimoniali e accompagnate dall’incrinatura strutturale della nostra sovranità.

Oggi certamente vanno introdotti elementi di innovazione nelle Popolari (innanzitutto su quel voto dei soci-dipendenti che ha bloccato certe banche cooperative), vanno organizzate operazioni di emergenza su realtà come il Monte dei Paschi e Carige, evitando però di liquidare una forma societaria che consente strutturalmente di difendere la sovranità sul nostro risparmio e lega naturalmente credito a territorio. Insomma vanno compiute scelte complesse e articolate, non demagogiche e speculative che magari a breve alimentano il mercato borsistico ma a medio termine colpiscono la produzione. Ci sono bastati gli appelli negli anni Novanta dei Ciampi e dei Prodi a liberalizzazioni e riforme senza concetto che hanno conciato l’economia nazionale com’è ora. Ben diversa è la strada da intraprendere oggi.

Foto salvadanaio da Shutterstock

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