La porta che ha aperto i ricordi

Articolo tratto dal numero di Tempi di ottobre

Non entravo da anni in San Marco, a Milano, nel quartiere di Brera. La chiesa è antica, molto bella e molto buia. Deve essere stato per questo che l’altra domenica, uscendo dopo la Messa, percorsa la lunga navata sono stata attratta dalla luce che entrava da una piccola porta, in fondo, sulla destra.

Mi sono avvicinata e ho passato la soglia. Ho alzato lo sguardo e mi sono fermata, con un tonfo al cuore. Quel cortile d’oratorio, quel piccolo campo da pallone. Li guardavo ogni giorno, tanti anni fa: dalle finestre del liceo Parini, che ora ritrovavo allineate, identiche, sulla facciata color crema del vecchio istituto, in stile sobriamente littorio. Da quelle finestre quante volte mi sono affacciata, contemplando il rosso dei mattoni di San Marco. Migliaia di volte, tra i quattordici e i diciotto anni. Di quella prospettiva mi ero del tutto dimenticata. Ritrovarmela davanti d’improvviso, inaspettata, oggi che ho dei figli di vent’anni, è stato uno schiaffo. Sono rimasta lunghi secondi immobile a guardare. «Cos’hai? Sei pallida», mi ha chiesto mio marito, quando infine l’ho raggiunto sul sagrato.

Intanto mi sommergevano i ricordi. L’ora di ginnastica, nell’aula magna col pavimento di linoleum verde; e il rimbalzare sonoro dei palloni da pallacanestro, pesanti. E in quella stessa aula le assemblee di fine anni Settanta, le grida, i pugni chiusi, in una velleitaria borghese ansia di rivoluzione. Una bidella anziana, poi, pallida e gentile, e le sue gatte, che ad ogni primavera facevano i piccoli, nel sottoscala dell’ingresso: e io che me ne andavo a contemplare le cucciolate, durante quelle assemblee, perché la rivoluzione degli altri non mi riguardava.

E lunghe ore di greco e di latino, e il mio sguardo che spaziava, distratto, sull’ampio cielo oltre la finestra, e sul cortile con il campo da pallone. Ore di fisica e trigonometria poi, io che guardavo la lavagna e non capivo, non capivo niente; e l’ansia che la professoressa mi chiedesse qualcosa, e la lancetta dell’orologio, che non voleva muoversi. L’ora dell’intervallo, i bagni pieni di fumo, i crocchi delle diverse bande, gli sguardi, veri o sognati, di quel ragazzo, colti per un istante solo, preziosi come oro. (La sera, a casa, li avresti rivisti cento volte come alla moviola quegli sguardi, riascoltando all’infinito dal mangianastri Yesterday, e Hey Jude).

E quelle finestre là nell’angolo del cortile, grandi, verticali, sono le vetrate delle scale. Le scale che al suono dell’ultima campanella scendevamo di corsa, spingendoci l’un l’altro, quasi che la vita vera ci aspettasse, fuori. Quanto terribilmente vicini mi sembrano stamattina quegli istanti, come fosse ieri. (Il tempo, invecchiando, si deforma, e ciò che è lontano appare così vicino che potresti toccarlo, solo allungando la mano. È un gioco doloroso, un inganno, cui ti sottrai a fatica).

E ti incammini e vai per la Brera di oggi, ma un ricordo ancora ti riagguanta. Tu seduta a un banco davanti ai commissari, in un luglio bollente. Parli di Pirandello e di Verga. Poi un professore dice, severo: ora vediamo Dante, e risenti esattamente il morso dell’ansia allo stomaco, sei un portiere che si prepara a un rigore. Infine, sotto il sole alto, le ruote della bicicletta sobbalzano sul pavé di via San Marco, tu sollevata e un po’ smarrita: la scuola è finita. E ora?

Lasciatemi adesso, vorresti dire ai ricordi che ti si moltiplicano nella memoria e ti si affollano addosso. È bastato un niente: affacciarsi imprudentemente a una piccola porta. Sono venuti fuori come profumi, troppo a lungo trattenuti in un vecchio cassetto. Solo vapori: eppure così vivi, ancora.

Foto chiesa di San Marco, Milano, da Shutterstock

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