La lezione della “ballerona” di Reflect e quella di Little Miss Sunshine

Non sei grassa, è dismorfia. Stampa in delirio per il corto Disney e il suo «messaggio universale di body positive». Ridateci l'impresentabile famiglia Hoover

Reflect, il nuovo cortometraggio Disney


«Olive, Richard è scemo». È da una settimana, da quando cioè i giornali hanno iniziato a sdilinquirsi per Bianca, “eroina Disney curvy”, “ballerina plus-size”, “icona della body positive”, “la prima ad affrontare il dismorfismo”, che pensiamo alla tonda e occhialuta Olive di Little Miss Sunshine davanti al gelato, mentre il padre Richard le spiega che il latte è grasso, il grasso del latte finisce nel gelato, il grasso del gelato nel suo corpo, «perciò se mangi tanto gelato tu potresti diventare grassa, se invece non lo mangi resti magra e bella». «Olive, Richard è scemo», conclude il nonno erotomane ed eroinomane (aggiungendo che a lui piacciono belle polpose ma tant’è): la battuta resta il miglior editoriale scritto a proposito di body shaming o dismorfia o come diavolo si chiami il tema dell’ultima crociata intestatasi dalla Disney con il cortometraggio Reflect.

Stampa in delirio per la ballerina “curvy” di Reflect

Un cartone da minuti sei, infilato nella seconda serie della collezione di corti sperimentali “Short Circuit” disponibili su Disney + e preceduto dall’inevitabile esegesi dell’animatrice e regista. Il corto racconta il momento in cui una piccola aspirante ballerina molto più che panzotta, insomma una ballerona, si fa travolgere dalla sua immagine riflessa nello specchio non appena l’insegnante, passando in rassegna i ballerini (il maschio, il nero, la magra, la asiatica) alla sbarra, l’ammonisce: «Pancia in dentro e collo lungo». Disastro, il suo riflesso si frantuma, moltiplica, i frammenti di specchio con la sua immagine, assunta una forma mostruosa, la assalgono e lei che fa? Si spaventa, trema e poi balla. E mentre balla i frantumi di specchio si ricompongono, ballano con lei, cambiano colore, diventano coreografia e non minaccia, e così la bambina può uscire dall’incubo con la certezza che è lei a determinare il suo riflesso, e vive felice e contenta tra gli altri ballerini alla sbarra. Fine del corto. E inizio degli Osanna a Disney, quale «messaggio di accettazione», «utenti di Tik Tok commossi», «su Twitter ringraziano», «da non perdere», «Bianca volto di tutte le ballerine (ma non solo) che almeno una volta si sono sentite inadeguate per le proprie forme», «il primo corto che parla di dismorfia» «la protagonista lotta contro il body shaming e la dismorfia», «vince la body positive». Tutto in sei minuti.

Che cosa sia la dismorfia lo sappiamo, è il coming out del momento: Marco Mengoni soffre di dismorfia, Sette ci ha dedicato una copertina, Bianca Balti ne parla sui social, Megan Fox soffre di dismorfia, Natalie Imbruglia ha sofferto di dismorfia, Belen anche, non passa settimana senza una celebrità dichiari di avere problemi con lo specchio. Sì perché grazie a tutti questi baciati da Madre Natura oggi tutti sanno che la dismorfia è «una condizione di salute mentale in cui non si riesce a smettere di pensare a uno o più difetti o imperfezioni percepite nel proprio aspetto – un difetto che sembra minore o non può essere visto dagli altri». È la definizione della Mayo Clinic riportata da Vogue per elogiare questo incredibile «messaggio universale di body positive di accettazione. Meglio tardi che mai: anche se forse un po’ tardivo – un corto così poteva (e doveva) forse essere fatto prima visto che la dismorfia corporea è una patologia di vecchia data che in questa società sempre più dominata dall’immagine diventa sempre più diffusa e potente» (la predica di Vogue sulla società dominata dall’immagine, capite?).

Il cinema dell’inclusività e il dramma reale delle ginnaste brutalizzate

Non è finita: e il transgender di Baymax, e la sirenetta nera, e il panda col ciclo, e la prima principessa Disney con gli occhiali in Encanto, tutti elogiano la veloce marcia di Disney verso l’inclusività (in pratica, mancavano solo i ciccioni), c’è chi parla di morte dello stigma della grassofobia, e chi, come Repubblica, loda Reflect a introduzione dell’inchiesta sulle pressioni psicologiche e umiliazioni subite dalle ragazzine della squadra azzurra di ginnastica ritmica per soddisfare i parametri del peso dalle allenatrici della Federginnastica.

Ragazzine cresciute a dieci ore di allenamenti, insulti e lassativi: «Ho pensato al suicidio», «mi pesavano tre volte a giorno», «mi sono ammalata di anoressia», «dicevano “Avete dei sederi enormi”, “vi si vede tutto”, “sembrate grasse”», «mi chiamavano maialino», «l’insegnante mi chiamava porchetta». Che c’entrino i sei minuti di ballerona di celluloide con le denunce realissime delle azzurre pelle e ossa brutalizzate, che hanno portato a catena a quelle di numerose colleghe, madri di ginnaste, indagini per maltrattamenti, esposti in procura, sospensioni, andrebbe chiesto a Repubblica (e forse anche – sempre a proposito di celluloide  – che ne è di tutti quei biopic allarmanti sull’ossessionante principio di rigore e sacrificio, sudore e umiliazione che ha segnato la vita delle più importanti ginnaste che lanciavano l’allarme ben prima che arrivasse Bianca o la formula “body shaming” facesse fortuna).

Non sei grassa, sei malata di dismorfia

Soprattutto andrebbe chiesto ai giornali che c’azzecca il dismorfismo con Bianca. Agli occhi dei giornali la protagonista di Reflect non è una ragazzina obesa, ma una malata di dismorfia, il che porterebbe alla conclusione che l’obesità non sia una malattia del corpo bensì della mente. È questo il messaggio della body positivity, non sei grassa, sei malata di dismorfia? Non sei grassa, sei vittima di bodyshaming?

È sempre la stessa storia, quella della modella di Gucci come di Vanessa Incontrada: dal corpo non si esce, e nemmeno dal recinto edificato intorno al corpo ridotto a strumento di rivendicazione dell’accettazione che gli spetta. È sempre un corpo la risposta al bullismo, al bodyshaming, alle umiliazioni, la risposta all’estetica omologata di Instagram e pure alla dismorfia. E che tutto questo non faccia sponsor, marketing, audience (Maria De Filippi ha edificato mezzo Amici sugli improperi dell’insegnante di classica Alessandra Celentano alle ballerine con l’etto in più) ma solo cambiamento culturale sarebbe da ingenui non pensarlo, perché per una tennista rumena Sorana Cirstea che denuncia «mi ha detto l’Adidas che è meglio essere belle ed essere tra le prime 20 piuttosto che essere brutte ed essere la numero 1», c’è sempre una Repubblica che esulta: «Alle ultime sfilate di New York le modelle sovrappeso hanno rubato la scena. Mentre linee di shape-wear come quella disegnata da Lizzo vengono indirizzate specificamente alle ragazze di taglia extralarge».

Non è sempre grassofobia: «Olive, Richard è scemo»

Lo scandalo delle ginnaste è una cosa seria, la celebrazione dei sei minuti di Disney un upgrade delle battaglie per chi dal corpo non esce mai. Quando la tonda occhialuta Olive sale sul palco per concorrere a Little Miss Sunshine, l’elezione di piccola Miss California, ha davanti a sé più che uno specchio: lo sguardo schifato del pubblico di mamme e miss per benino. È allora che prorompe in un goffissimo ed esilarante balletto, tutto colpi di deretano, mezzo spogliarello e saltelli a caso. «Lo dedico a mio nonno che mi ha insegnato tutte le mosse», anticipa emozionata.

Il nonno in quel momento è un cadavere chiuso nel pulmino Volkswagen giallo guidato dalla strampalata famiglia Hoover fino alla California, per il resto non manca davvero niente e nessuno: c’è lo zio gay prustiano che ha tentato il suicidio, il fratello daltonico depresso finto muto, il padre Richard fallito ossessionato da grasso e perdenti, la mamma tutta casa e nervi a pezzi. Tutti sul palco a ballare con e per una figlia nella quale il pubblico non vede che una bimba grassa tra gli psicopatici. In Little Miss Sunshine ci si guarda, ci si prende e si ama l’altro così com’è: l’altro, cioè l’unico punto di fuga da uno sguardo ossessionato su di sé e dall’imperativo categorico di fare del proprio sé imperfetto un messaggio positivo. In Little Miss Sunshine la dismorfia e la tegola del difetto sono negli occhi di quelli normali, la fiducia in sé non è questione di empowement ma di bene di chi ti vuole bene, l’inclusività un’impresentabile e spontanea necessità. E chi ti guarda la pancia non è grassofobico, ma semplicemente scemo: «Olive, Richard è scemo».

 

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