La domanda che Repubblica deve ancora porre (se non a Eco, almeno a Scalfari)

È in una delle «serate di baldoria» con Eco rievocate da Scalfari che si stabilì che Calabresi andava abbandonato alla giustizia popolare?

Pubblichiamo la rubrica “Boris Godunov” di Renato Farina contenuta nel numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

Boris, che è un russo, un passionale, è sconvolto dall’omertà di un figlio. O forse è perdono? La vita è complicata, e nessuno deve giudicare le coscienze. Ma le cronache devono essere sincere. Anche i resoconti sulla vita di un grande o supposto tale devono trovare il posto per le cadute. E che cadute. Il perdono non può essere dimenticanza, sbianchettamento. Ma indicazione del delitto, e misericordia per il colpevole.

Il riferimento è a Umberto Eco. Sicuramente un genio, ma di cui nessuno ha sentito il bisogno di rileggere un libro che uno. Erano curiose, complicate, coltissime, erudite, giocose bolle di sapone. Anche Il nome della rosa è stato una lettura gustosa, ma in fondo un falso, trasudava finzione ideologica. Il Medioevo vi era presentissimo, totalitario, ma era evirato della sua verità. Mancava Dio. Era la proclamazione dell’ateismo parascientifico. C’era Dio ma era come il Dio di Sartre. Un Dio che non è quello lì. Un paraninfo di Satana (e di Umberto Eco).

Non è stato il primo falso di Eco. Ne ha scritto, anzi sottoscritto, ciò che è lo stesso, un altro. Quello in cui si accusava, insieme al branco dei suoi amici stupratori della verità, il commissario Luigi Calabresi. Vi si asserì fosse un «commissario torturatore», «responsabile» della morte di Pinelli. Il caso è noto. In 757 e più (aderì infatti anche l’associazione di giornalisti che poi prese in mano l’Ordine dei giornalisti e il sindacato) firmarono una missiva in cui si sosteneva senza troppe parafrasi che nei locali della Questura di Milano, l’anarchico Giuseppe Pinelli era stato suicidato dalla polizia. Il suo nome era indicato a chiare lettere. Erano tanti. Di essi pochissimi hanno chiesto pubblicamente scusa, dichiarando di vergognarsene. Che Boris sappia: Paolo Mieli e Carlo Ripa di Meana. Senza enfatizzare, ma Boris è un estremista e bisogna capirlo, sostiene che fu una motivazione della sentenza di morte eseguita nel maggio del 1972.

La morte di Eco avvenuta nella serata di venerdì è stata rivelata sui quotidiani solo da Repubblica, sabato 20 febbraio. La domenica un supplemento speciale lo ha commemorato. C’è stata una serie di grandi articoli. Il più importante è stato quello di Eugenio Scalfari. Vi ha rievocato l’allegra baldoria notturna che caratterizzava quel gruppo di autentici pesci pilota della cultura italiana: «Per qualche tempo fu perfino un rapporto di baldoria; quando lui veniva a Roma da Milano dove abitava o da Bologna dove insegnava, la sera ci trovavamo al piano bar di Amerigo dove dopo le dieci della sera c’era tutta l’intellighenzia della nostra sinistra, della quale Umberto faceva parte. E lì si chiacchierava, si beveva, si cantavano canzoni e si ballava fino alle due del mattino».

Domanda: è in una di queste simpatiche serate che si stabilì che Calabresi andava additato come un torturatore e lasciato in mano alla giustizia popolare? Una domanda – se fossi stato il direttore di Repubblica – gliel’avrei posta, almeno il giorno dopo. Nulla.

La rara finezza di Adriano Sofri
Perché? Non pensa il direttore di Repubblica che non affrontare il tema sia una intollerabile omertà? Come privato cittadino può essersi chiarito mille volte con Umberto Eco e con Eugenio Scalfari, ma come direttore del più diffuso quotidiano italiano ha l’obbligo di far sapere le cose di rilevanza morale e di interesse storico.

Detto questo, si rileva qui come Adriano Sofri, con finezza rara, condannato come mandante dell’assassinio di Calabresi, se ne sia andato subito dal quotidiano. Professandosi innocente non ha inteso però ricordargli ogni volta con il suo nome l’omicidio del padre. Invece nulla è trapelato, dietro la tenda scura del gruppo editoriale più potente d’Italia, a proposito di scuse, di pentimenti, di mea culpa per nessuna delle famose firme di Repubblica.

Già, Boris dimenticava che Eugenio Scalfari ha assicurato che il Papa lo ha confermato nell’idea che il peccato non esiste, e se uno è coerente con le sue convinzioni non sbaglia mai, è puro sempre e comunque. Anche quando un innocente ci rimette la vita, dopo qualcuna di queste belle baldorie? Anche quando un gruppo di intellettuali, che non ha smesso di celebrarsi per cinquant’anni, afferra un uomo buono e lo appende in piazza, esposto prima agli sputi e poi ai colpi di pistola?

@RenatoFarina

Foto Ansa

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