La crisi somala spaventa più di quella europea

3 milioni di somali rischiano di morire di fame. O divorati dalle bestie feroci mentre tentano la fuga. Don Alfonso Poppi, missonario in Kenya e Leo Capobianco, responsabile Avsi, spiegano a Tempi le forti contraddizioni di una crisi che minaccia di decimare la Somalia

I profughi ci fanno capire che non è solo la mancanza di cibo a farli uscire dal paese”, così racconta Leo Capobianco, responsabile della ong Avsi, che opera nel campo profughi kenyano di Dadaab, al confine con la Somalia. “Certamente di fronte a una nazione che sta perdendo il 45 per cento dei suoi abitanti, colpiti da una carestia che non ha paragoni, è necessario che tutti intervengano immediatamente. Non c’è scusa politica che tenga, non c’è crisi europea che giustifichi la distrazione”. In effetti, il governo kenyota sta portando avanti un estenuante  braccio di ferro con le Nazioni Unite, che chiedono l’apertura di un quarto campo visto l’esodo massiccio. “Il governo, però, teme che tra i somali si nascondano i terroristi di Al-Shabab, responsabili dell’anarchia del paese”, spiega don Alfonso Poppi, missionario della fraternità San Carlo in Kenya. “Una mia parrocchiana – spiega il missionario – mi ha appena confessato i timori che vive il popolo keniota: teme che alcuni somali, di identica etnia, magari fondamentalisti, si possano confondere con i cittadini e trovare il modo di registrarsi come tali”. Ma se non li si accoglie e aiuta immediatamente si rischia la morte di altri 3 milioni di persone. “Per questo ribadisco anch io che non bisogna tergiversare. Occorre aprire le porte, mentre gli occidentali devono contribuire ad aiutare questa gente, finanziando le ong”. E’ vero, però, che occorre anche lavorare pensando ad una strategia di lungo respiro che cerchi di risolvere la crisi politica che interessa il paese. “Questo è evidente, ma l’appello del Papa è chiaro: “Non manchi la nostra solidarietà” che deve essere intelligente e deve interrogarci su quanto sta accadendo. Il Pontefice ha continuato l’appello esortando al “concreto sostegno di tutte le persone di buona volontà”.

 

Per questo motivo la Conferenza episcopale italiana ha aperto un fondo di un milione di euro prelevati dall’8 per mille e un altro straordinario di 300 mila da destinare alle popolazioni di tutto il corno d’Africa, a rischio insieme a quella somala. Mentre per domenica 18 settembre la Cei ha indetto una colletta in tutte le chiese italiane. Difficile, però, capire come portare gli aiuti a chi si trova ancora nel paese. Le notizie su quanto sta avvenendo in Somalia restano per lo più contraddittorie. “Anche per questo – continua Capobianco – è difficile pensare a una strategia politica per affrontare la situazione. C’è chi dice che gli aiuti stanno arrivando dall’aeroporto della capitale, c’è chi afferma che i ribelli li vogliano per sé. E chi parla di scontri fra esercito e milizie islamiche. A Mogadiscio potrebbe persino inziare una guerriglia”. Forse l’unica soluzione sarebbe quella di far intervenire i caschi blu. “A Mogadiscio però ci sono già le forze militari mandate dall’Unione Africana”. Forse allora andrebbero incrementate. “D’altra parte, però, alcuni profughi dicono che nella capitale si vive abbastanza normalmente. Certo è pericolosa e non c’è libertà, ma fin ora almeno si lavorava e si mangiava. Il problema è iniziato un mese fa: nel resto del paese si vive di agricoltura e pastorizia, la mancanza delle piogge ha vanificato la semina di un anno. Così la gente racconta di aver camminato per un mese con la famiglia. Dal Nord al Sud sono venuti pagando con tutto il poco che avevano, come richiesto per poter passare da certe zone. Tanti sono morti di stenti sotto il sole, senza cibo né acqua. Una famiglia mi ha addirittura raccontato di essere stata assalita dalle bestie feroci nella Savana: la madre si è salvata con i bambini, mentre il padre e un figlio sono stati divorati dalle iene. Alcuni vengono uccisi dai leoni”. Se è vero che la fame ha provocato l’esodo il problema resta comunque più profondo. “C’è altro che muove questa gente.

 

Non a caso i campi profughi sono sul confine kenyota-somalo dal 1992, anno in cui gli estremisti si sono imposti. E da allora arrivano qui in circa 6 mila al mese. A giugno sono aumentati a 300 mila. Se gli chiedessimo: “Se il problema della fame si dovesse risolvere, torneresti a casa?”, nessuni risponderebbe affermativamente”. Ma qual è il loro sentimento nei confronti della madre patria? E perché si sa così poco di quanto accade lì? “Hanno paura – spiega Capobianco –  anche quando riescono a varcare il confine e a ricevere assistenza da noi. Hanno il terrore che tra di loro ci siano infiltrati delle milizie. Ti fanno solo intendere che il problema sono i fondamentalisti islamici, ma non citano mai direttamente Al-Shabab. Per ora quindi si cerca di entrare nella capitale somala con gli aerei, ma siccome i ribelli bloccano parte degli aiuti, si è costretti a tentare altre vie. Alcune ong agiscono in via ufficiosa. Un’organizzazione ci ha riferito di aver sfamato circa 24 mila persone gettando il cibo dagli aerei. Lo fanno perché non vogliono trattare con i ribelli”. Ma i soldi non servono solo per il cibo: “Noi di Avsi, assieme ad altre ong, sappiamo che per aiutare la popolazione non è sufficiente pensare solo al suo nutrimento. Occorre un lungo lavoro educativo. Quando arrivano qui i bambini, denutriti e con le pance gonfie, proprio come si vede in tv, non sono solo affamati ma profondamente traumatizzati. Hanno bisogno di adulti che li facciano giocare, che li accompagnino, che li ascoltino. Perciò, nei campi profughi abbiamo da sempre asili e scuole”. Certo l’impotenza di questi giorni, che cresce insieme alla difficoltà d’intervento, “ci costringe – conclude Poppi – a riflettere su quanto sta accadendo e ad accendere i riflettori su una crisi che fa impallidire anche quella europea”.

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