Rimborsi Iva, così i ritardi dello Stato “incentivano” le nostre imprese a non esportare più

Il problema sarebbe già all'esame della Commissione europea (procedura d'infrazione?). Intervista ad Alfredo Mariotti, associazione costruttori macchine utensili, tra i settori più penalizzati

Difficile credere che il solo piano Destinazione Italia voluto dal governo Letta per rilanciare la competitività del Paese attraendo investimenti dall’estero riuscirà a salvare l’imprenditoria in crisi. Difficile crederlo perché da noi è lo Stato in prima persona a penalizzare le imprese, campioni dell’export e del made in Italy compresi. Ad accorgersene, da ultima, è stata la Commissione europea, che pare stia preparando una procedura di infrazione contro l’Italia per i tempi troppo lunghi per il rimborso dei crediti Iva alle imprese: due anni in media, ma lo Stato ne concede fino a quattro. Una mancanza che colpisce anche le aziende virtuose nei confronti del fisco.

11 MILIARDI DI EURO. Il problema dei ritardati rimborsi Iva da parte dello Stato riguarda un ammontare totale di almeno 11 miliardi di euro, come ha ricordato Attilio Befera, direttore dell’Agenzia delle entrate, in audizione alla Camera lo scorso aprile. E a pagare il dazio maggiore per questo ritardo sono le imprese fortemente esportatrici. È il caso, per esempio, dei produttori di macchine utensili (come torni e fresatrici) che servono a lavorare qualsiasi materiale. Conferma Alfredo Mariotti, direttore generale di Ucimu, l’associazione dei costruttori italiani di macchine utensili, robot e automazione: «Le nostre aziende esportano l’80 per cento delle macchine che producono – spiega Mariotti a tempi.it – e per qualcuna di esse incrementare l’export comincia a diventare un problema».

EXPORT? NO, GRAZIE. Il motivo di questo paradosso, secondo Mariotti, è che «lo Stato ritarda nel rimborsare i crediti Iva». Infatti, mentre le imprese che operano prevalentemente all’interno dei confini nazionali quando devono liquidare l’Iva possono fare affidamento sul meccanismo di compensazione tra l’Iva a debito versata ai propri fornitori e quella a credito incassata dai propri clienti, scaricandone l’onere sul consumatore, così non è per chi esporta in percentuali elevate come nel caso dei produttori di macchine utensili. Da questi l’Iva deve essere pagata subito sugli acquisti, mentre non viene incassata dai clienti; le vendite all’estero, infatti, possono essere esenti dall’Iva. Ciò comporta che il meccanismo di compensazione tra debiti e crediti Iva determini una situazione di credito nei confronti dello Stato per l’impresa esportatrice. E se lo Stato rimborsa i debiti con due anni e più di ritardo, si capisce perché esportare «può diventare un problema».

SCONTARE L’IRAP. Ma il ritardo dei rimborsi Iva non è l’unica difficoltà che i campioni italiani dell’export patiscono in termini di competitività nei confronti dei loro rivali stranieri. C’è la burocrazia, che per Mariotti «andrebbe semplificata» e che oltre a rappresentare un costo, nemmeno troppo occulto, è in parte anch’essa causa del ritardo dei rimborsi. C’è l’«eccessiva pressione fiscale», che «andrebbe abbattuta di 6-7 punti». E c’è il costo del lavoro, in Italia più elevato che altrove. Su questo punto, «la nostra proposta – spiega Mariotti, – è di scontare l’Irap pagata sul costo del personale» per una quota pari al rapporto dell’export sul fatturato d’impresa. In pratica: «Se io esporto il 30 per cento della mia produzione, lo Stato dovrebbe scontarmi l’Irap del 30 per cento». Com’ è possibile infatti – è il ragionamento di Mariotti – che un’azienda italiana possa produrre in serenità e competere sui mercati globali se «un operaio con uno stipendio di 1.500 euro costa all’azienda 4 mila euro? È impossibile, bisogna trovare una soluzione». E una soluzione va trovata anche per l’operaio, perché «se non mettiamo in tasca più soldi agli italiani, i consumi non ripartiranno e l’economia non crescerà».

@rigaz1

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