Io, cyborg, mi sono hackerato con un virus

Intervista a Mark Gasson, il professore che si è impiantato un microchip nella mano e poi lo ha infettato per studiare gli effetti. «Mi sono sentito violentato. Il futuro è di un “uomo potenziato” capace di superare i limiti biologici. Ma esistono dei pericoli»

Articolo tratto dal numero di Tempi di gennaio 2019.

«Piacere, sono il primo essere umano a essere stato infettato da un virus informatico». Se volesse, Mark Gasson, potrebbe presentarsi così e senza dubbio catturerebbe l’attenzione del suo uditorio. Come può infatti il corpo biologico di un uomo essere attaccato da un software? Teoricamente è impossibile, ma dipende tutto da che cosa si intende per “corpo”. «La linea di demarcazione tra essere umano e tecnologia è sempre più sfumata. Quando nel 2009 mi sono fatto impiantare un microchip nella mano, tra il pollice e l’indice, per potenziarmi, l’ho subito percepito come parte integrante di me. È arrivato il momento di cambiare la nostra concezione di “umano”». Prima di derubricare alla voce “pazzo” il consulente futurista residente a Los Angeles e professore ospite dell’Università di Reading, bisogna considerare quante cose sono cambiate dal 1998. 

Vent’anni fa, infatti, un professore dello stesso ateneo britannico, Kevin Warwick, si è fatto impiantare per la prima volta nella storia un microchip grande quanto un granello di riso nel braccio sinistro. Il dispositivo sfruttava la tecnologia Rfid (identificazione a radio frequenza), la stessa che permette di aprire e chiudere l’auto senza usare la chiave o prelevare snack e bibite dalle macchinette con una semplice chiavetta prepagata o accedere a un edificio con una tessera magnetica o ancora effettuare una transazione con una carta di credito. Tutte azioni quotidiane che, grazie al microchip impiantato, possono essere svolte con un semplice gesto della mano, in grado di prendere il posto di chiavi, tessere, carte. Il microchip può anche registrare dati e informazioni, sostituendo così le password per sbloccare computer e cellulari.

Dall’esperimento pionieristico di Warwick, in soli vent’anni, la tecnologia si è diffusa a macchia d’olio e oggi, secondo la Bbc, tra le 10 mila e le 100 mila persone hanno già un microchip impiantato nella mano. L’industria del cosiddetto “Biohacking” è fiorente e nel 2025 dovrebbe raggiungere un giro d’affari da 2,3 miliardi di euro. Negli Stati Uniti, la compagnia Three Square Market ha chiesto un anno fa ai suoi dipendenti di adottare il dispositivo e 85 lavoratori hanno accettato. L’azienda inglese BioTeq, specialista del settore, ha già realizzato 150 impianti nel Regno Unito e sta lavorando con decine di aziende per esportare la tecnologia in Spagna, Francia, Germania, Giappone e Cina. In Svezia, più di 4.000 persone hanno un corpo “potenziato” dai microchip che, grazie a un accordo con la società ferroviaria SJ Rail, può essere utilizzato al posto del biglietto. Biohax, che ha sviluppato la tecnologia nel paese scandinavo, giura di avere così tante richieste da non riuscire a soddisfarle tutte. Jowan Österlund, il fondatore della compagnia, è già considerato un guru e gira il mondo per parlare di quello che sarà «il prossimo salto dell’evoluzione umana».

Mark Gasson nel 2009 aveva intuito le possibili applicazioni dei microchip e aveva previsto che sarebbero stati sempre più diffusi nel giro di pochi anni. Il ricercatore, pur essendo un fervido sostenitore della necessità di “potenziare” il corpo umano fondendolo con i nuovi ritrovati della tecnologia, ne ha intravisto anche i potenziali rischi. Per questo ha deciso di infettare il proprio microchip con un virus e di hackerarsi, pubblicando poi uno studio dal titolo: “Attaccare gli impianti umani: una nuova generazione di cybercrimine”. In un’intervista a Tempi, Gasson spiega che il transumanesimo non è privo di problemi e affronta le tante domande che si spalancano quando «si cerca di superare i limiti biologici dell’uomo». Perché «il progresso tecnologico è sempre associato a rischi».

Quali rischi, professore?
Sicurezza e privacy, innanzitutto, che vengono già messe a repentaglio dall’utilizzo dei social media. Io con la mia ricerca volevo comprendere i pericoli di questa innovazione, perché se dobbiamo accettare un futuro dove saremo sempre più intimamente legati alla tecnologia, è meglio capire come mitigarli.

Chi ha detto che “dobbiamo accettare” questo futuro?
Non c’è alternativa. Quando l’innovazione sarà messa a punto, avrà un impatto sociale tale che non se ne potrà fare a meno.

Ne è certo?
Assolutamente. Qui non stiamo parlando di portare con sé uno smartphone, che può svolgere tante funzioni utili. Qui si tratta di fondere l’uomo e la macchina: questo apre nuovi scenari nel nostro rapporto con la tecnologia, perché l’utente perde l’accesso fisico e il controllo diretto con essa, che potrà interagire con il nostro corpo senza il filtro degli organi sensoriali primari, come il tatto. Questo ci esporrà a pericoli senza precedenti.

Come utilizzava il microchip impiantato nella sua mano?
Per ottenere l’accesso esclusivo a un edificio e al mio telefonino, che funzionava solo quando era vicino al mio impianto. Il dispositivo memorizzava anche i dati e poteva interagire con i sistemi di sicurezza dell’edificio.

E poi?
Dopo avere mantenuto l’impianto per oltre un anno, ho sfruttato volontariamente una vulnerabilità della tecnologia e mi sono infettato con un virus, in grado di rubare i dati del sistema dell’edificio e attaccare altri impianti.

Voleva dire che ha infettato il suo microchip.
No, ho infettato me stesso.

Ma lei non può identificarsi con il suo microchip.
Chi l’ha detto? Ha mai parlato con una persona dotata di un arto artificiale? In tanti affermano di sentirsi così intimamente legati, ad esempio, alla propria gamba meccanica da considerarla parte integrante del proprio corpo. Non è come avere in tasca uno smartphone.

Che differenza c’è?
Io ho portato il microchip dentro la mia mano per oltre un anno prima di hackerarmi. Il chip è diventato parte integrante della mia esperienza quotidiana e ho cominciato a usarlo senza pensarci, così come usiamo le nostre mani senza aver bisogno di pensare a dove si trovano. La verità è che non me lo aspettavo, ma era come se il virus avesse attaccato me.

E che cosa ha provato? Non dica che si è sentito male come se avesse il mal di stomaco.
Ho vissuto un’esperienza di violazione sorprendente, anche perché io ero diventato un pericolo per il sistema di accesso all’edificio. Ero io a essere pericoloso e non potevo farci niente: il microchip infatti non può facilmente essere rimosso dalla mano o spento, serve una piccola operazione chirurgica. Mi sentivo impotente. 

Non è semplice da capire.
Le hanno mai svaligiato la casa?

Sì, perché? 
Il magone che ti stringe lo stomaco quando scorgi gli armadi svuotati e i cassetti rovesciati a terra è difficile da spiegare a chi non ha mai fatto questa esperienza. Ma è assolutamente reale.

Quali sono gli altri rischi connessi ai microchip?
I movimenti degli utenti che li portano potrebbero essere tracciati. Inoltre, questi dispositivi non si possono rimuovere, spegnere o riparare facilmente in modo autonomo. L’operazione per impiantarli ed espiantarli, che andrebbe poi ripetuta ogni due o tre anni per aggiornare il dispositivo, può causare infezioni. Qualcuno ha parlato anche di rischi legati all’insorgenza di tumori, ma si sono verificati casi solo negli animali e mai negli esseri umani.

Ce n’è a sufficienza per spaventare la gente, eppure sempre più persone sfruttano questa tecnologia. Come mai?
Io l’avevo previsto. I microchip impiantati sono già molto utili e comodi, ma in futuro lo saranno ancora di più, nella misura in cui riusciranno a potenziare gli esseri umani.

In che modo?
Bisogna iniziare a cambiare ciò che intendiamo con il termine “umano”. L’uomo ha sempre cercato di superare i propri limiti corporei e questa tecnologia può aiutarlo. Noi stiamo comunicando tramite email. Non le sembra assurdo, ad esempio, che per veicolare un’idea complessa dalla mia alla sua testa io debba schiacciare dei tasti di plastica sulla tastiera di un computer?

Non è comodo?
No. La tecnologia impiantabile potrebbe potenziare la comunicazione permettendo un collegamento diretto, wireless, tra il mio e il suo cervello. Potrebbe anche potenziare la memoria e servire per recuperare informazioni immagazzinate decenni fa solo con il pensiero. Chi non lo vorrebbe?

Temo che molta gente sarebbe spaventata e continuerebbe a usare il computer.
Anche se lo fosse, l’impatto sociale sarebbe tale che tutti dovrebbero ricorrere a questa tecnologia. Chi non volesse farlo, infatti, sarebbe così svantaggiato da non avere scelta. Pensiamo ai cellulari: qualcuno può pensare davvero di potere entrare nel mondo del lavoro oggi senza un telefonino? Sarà la pressione sociale a rendere necessaria questa tecnologia e poiché sarà costosa, temo, si creerà un divario tra gli uomini che possono permetterselo e gli uomini che non possono.

Uomini molto simili a cyborg.
Io credo che i microchip faranno parte del nostro concetto individuale e sociale di forma umana. Non dobbiamo pensare solo a dispositivi che “rimpiazzano” parti del corpo, come potrebbe essere un arto meccanico, ma che lo potenziano. Allora la differenza tra corpo e tecnologia si sfuma inevitabilmente. La chiave di tutto è la percezione soggettiva: saremo costretti ad allargare la nostra concezione di corpo per includere questi potenziamenti.

Perché mai?
Per evitare abusi, ovviamente. C’è un’enorme differenza, oggi, tra la protezione che la legge garantisce al corpo e quella che garantisce agli oggetti. Immaginiamo, in un futuro prossimo, di avere dispositivi impiantati che potenziano la memoria: la polizia dovrebbe essere autorizzata a “cercare” nella nostra memoria allo stesso modo in cui oggi rovista nel database di un computer? Dobbiamo allargare il nostro concetto di diritti umani, come quello all’integrità corporea.

Di che cosa si occupa attualmente?
Mi occupo di interfacce bidirezionali con il sistema nervoso. Sono utilissime in campo medico, perché permettono ad esempio a chi ha una protesi al posto di un arto amputato di guidarlo e di “sentirlo” direttamente con il cervello. In futuro potremmo avere un impianto cocleare (un orecchio artificiale elettronico in grado di ripristinare la percezione uditiva nelle persone con sordità profonda, ndr) che dia a un sordo un udito sovrumano. Potremmo anche fornire un impianto retinale che dia a un cieco una visione aumentata da informazioni aggiuntive, veicolabili tramite un collegamento internet. Ma non mi limito a questo.

A cos’altro sta lavorando?
A stimolatori del sistema nervoso centrale. Riguardano, ad esempio, l’impianto di elettrodi nel cervello per bloccare disordini debilitanti come il tremore associato al Parkinson. Ne ho sviluppati diversi. È una tecnologia che si trova alla base di tutti i futuri dispositivi che hanno lo scopo di potenziare le persone sane.

Quando lei si è hackerato ha messo a rischio l’edificio al quale aveva un accesso ristretto. A fronte di potenziamenti maggiori, aumenteranno anche i pericoli?
Sì. Se pensiamo a strumenti per aumentare la memoria o l’intelligenza, infettandoli con dei virus potremmo non solo danneggiare la persona, ma farle credere ciò che vogliamo o instillarle pensieri dall’esterno o ancora carpirle informazioni direttamente, senza il suo consenso. A medio termine, invece, potrebbe essere possibile hackerare un arto artificiale e guidarlo per fare compiere alla persona gesti che non vuole. Gli stessi pacemaker potrebbero essere hackerati da criminali.

Che cosa direbbe a una persona spaventata da questi sviluppi tecnologici, per quanto ancora futuribili, per convincerla a impiantarsi un microchip?
E perché mai qualcuno dovrebbe essere spaventato? L’uomo che si fonderà con la macchina potrà finalmente liberarsi dei suoi limiti biologici. Non è forse quello che abbiamo sempre sognato di fare fin dal principio?

@LeoneGrotti

Foto Paul Hughes

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