«In Libano la gente si fa la guerra per una bottiglia di latte»

L'instabilità politica ed economica del paese dei cedri ha generato il caos a tutti i livelli. «Ogni prodotto di base non è disponibile: elettricità, carburante, internet, acqua. La vita normale non esiste più»

Libanesi in coda a Beirut per riempire le bombole di gas (foto Ansa)

Con un governo nuovamente in bilico, il Libano sta progressivamente precipitando in una spirale di caos che sta minando le fondamenta stesse della società. I problemi economici rappresentano solo uno degli aspetti di una crisi che ormai pervade ogni aspetto della vita, travalicando anche le storiche tensioni interreligiose tra cristiani, sciiti e sunniti. Al pari del governo di Hassan Diab, che rassegnò le dimissioni in massa nell’agosto del 2020 dopo l’esplosione del porto di Beirut, restando in carica per il disbrigo degli affari correnti fino al settembre 2021, l’esecutivo guidato da Najib Mikati sta a sua volta fallendo nel tentativo di riportare il paese su una nuova china, con i conflitti sociali che oggi rappresentano la vera miccia che può innescare la sempre temuta escalation politico-religiosa.

«Il Libano è al collasso»

Quello che sta passando il Libano «non è solo una crisi economica, ma è molto di più: un collasso che sta portando le persone allo scontro sociale per i beni di prima necessità», afferma a Tempi Elie al Hindy, direttore esecutivo dell’Adyan Foundation, organizzazione non governativa impegnata nella promozione della solidarietà e la salvaguardia della dignità umana nel paese dei cedri.

A due anni dalle manifestazioni del 2019, chiamate dai libanesi “rivoluzione di ottobre”, quando scesero in strada a Beirut quasi due milioni di persone per settimane contro la corruzione e la crisi economica, il paese è decisamente peggiorato, a causa delle conseguenze del Covid-19 e della devastante esplosione che il 4 agosto 2020 ha distrutto il porto di Beirut provocando oltre 218 morti e 300.000 sfollati. «Dopo l’esplosione, solo poche persone scesero in piazza», afferma Al Hindy. «Per me questo è stato un chiaro segno che la rivoluzione nel senso della “strada” è finita. La strada non potrà più essere uno degli strumenti del cambiamento. La popolazione desidera una rivoluzione, le forze della società vogliono un cambiamento, ma occorre agire a livello politico e non semplicemente scendere in piazza», spiega.

La lira ha perso il 90 per cento del valore

«Dal punto di vista umanitario, l’esplosione di Beirut ha rappresentato una catastrofe per le persone, con 300 mila cittadini costretti ad abbandonare le loro abitazioni. A livello politico non è cambiato molto a parte le dimissioni del governo Diab. Oggi abbiamo un nuovo governo che al pari del precedente non sta facendo nulla», continua il direttore dell’Adyan Foundation. «Le esplosioni del 4 agosto hanno rappresentato un “momentum”, un “sintomo” di quanto la politica sia corrotta e quanto incompetente sia il governo».

Dal 2019, complice il continuo stallo istituzionale che grava sul paese ormai da oltre un decennio, la lira libanese ha perso il 90 per cento del suo valore abbattendo il potere d’acquisto in uno Stato quasi completamente dipendente dalle importazioni. Il sistema bancario è paralizzato, i depositanti sono esclusi dai risparmi in valuta estera o costretti a prelevare contanti nella valuta locale al collasso e questo equivale a un crollo de facto del valore dei depositi dell’80 per cento. Secondo il Programma alimentare mondiale (Pam) i prezzi del cibo sono aumentati del 557 per cento da ottobre 2019 e l’economia si è contratta del 30 per cento dal 2017. Inoltre, la carenza ormai cronica di carburante ha paralizzato la vita quotidiana della popolazione, colpendo i servizi essenziali tra cui ospedali e panifici.

«Manca tutto: dall’acqua all’elettricità»

«Ogni prodotto di base non è disponibile: elettricità, carburante, internet, acqua. La vita normale non esiste più», osserva Al Hindy, secondo cui l’unico modo per affrontare la crisi è disporre di un’entrata in dollari. Solo il 15 per cento della popolazione ce l’ha, mentre un altro 30 per cento riesce a sopravvivere grazie alle rimesse di parenti espatriati all’estero. Il resto della popolazione «vive nel completo caos e questo caos porta allo scontro sociale tra le persone per ogni cosa».

Il caos interessa le stesse agenzie governative e di sicurezza, a loro volta al collasso. «I diverbi tra la popolazione sono divenuti sempre più frequenti. L’instabilità sociale ha portato le persone a scontrarsi per una bottiglia di latte per i propri figli o per una tanica di carburante», racconta Al Hindy. «Questi episodi sono sempre più frequenti e continueranno ad aumentare finché non avremo una sorta di stabilizzazione che arriverà solo con un accordo tra le autorità e il Fondo monetario internazionale (Fmi)».

La perenne instabilità politica

Alle tensioni sociali, si aggiungono le mai sopite tensioni politico-religiose che da oltre un anno stanno impedendo serie indagini sulla devastante esplosione del 4 agosto. Dopo la decisione della Corte di cassazione di consentire l’arresto dell’ex ministro delle Finanze e membro di Amal, Ali Hassan Khalil, richiesta dal giudice incaricato delle indagini, Tarek Bitar, lo scorso 14 ottobre a Beirut migliaia di sostenitori del movimento sciita appoggiati dagli alleati di Hezbollah – il gruppo filoiraniano guidato da Hassan Nasrallah – sono scesi in piazza davanti al Palazzo di giustizia del quartiere di Tayouneh per chiedere le dimissioni del magistrato. Con molti manifestanti armati e l’esercito schierato preventivamente per evitare il peggio, nel pieno della manifestazione alcuni spari hanno colpito la folla, scatenando uno scontro a fuoco che ha fatto 7 morti e 32 feriti.

Gli scontri a fuoco sono avvenuti a un incrocio dei quartieri di Ain Al Remmeneh, Chiyah e Tayouneh, lungo l’asse di quelli che sono stati teatro di violenze settarie durante la guerra civile. Chiyah è a maggioranza sciita, a Ain Remmeneh vivono molti sostenitori delle Forze libanesi. Hezbollah e Amal hanno accusato i militanti delle Forze libanesi di aver pianificato un attacco premeditato, ma in base ad alcune fotografie e testimonianze i primi colpi sarebbero stati esplosi dalle forze di sicurezza. Tuttavia, per Al Hindy, quanto avvenuto il 14 ottobre resta un episodio, e le stesse forze che si contrappongono in Libano non hanno interesse ad avviare una escalation in questo momento.

«Hezbollah ha capito che la situazione poteva degenerare e sfuggire di mano», osserva , facendo notare che il movimento sciita che vanta una forza armata più potente dell’esercito libanese finora era convinto di avere il controllo di presidenza e parlamento, ma l’azione del giudice Bitar e i fatti di Tayouneh hanno mostrato che non è così. Secondo Al Hindy, un’occasione di possibile cambiamento sono le elezioni previste per marzo 2022. Tuttavia, per avviare le riforme necessarie a livello politico serve il sostegno della comunità internazionale e anche dei cristiani e un’azione di pressione sui politici libanesi. «Occorre anche sostenere la resistenza e la resilienza della popolazione libanese soprattutto nei bisogni primari, salute ed educazione».

«La comunità cristiana è la più vulnerabile»

Con un collasso economico che secondo la Banca Mondiale è il peggiore degli ultimi 150 anni, tutte le comunità religiose che compongono la variegata società libanese sono a rischio. Molte famiglie in difficoltà riescono a sopravvivere grazie alle rimesse di parenti che lavorano all’estero, ma tale situazione aumenta ulteriormente i rischi di un esodo di massa che da anni interessa soprattutto la comunità cristiana. «La dimensione in termini percentuali delle persone che abbandonano il paese rende la comunità cristiana molto più vulnerabile in questo senso», afferma Al Hindy. «D’altronde, però, la comunità cristiana è quella che vede il maggior numero di persone parte della diaspora e questi parenti all’estero inviano denaro in Libano».

I giovani residenti all’estero inviano infatti gran parte delle loro entrate per sostenere le famiglie in patria. «Oggi una famiglia può sopravvivere con 500 dollari al mese. Molte altre famiglie ricevono 100-200 dollari al mese, che non servono per sopravvivere ma che offrono comunque una base di partenza da integrare alle proprie entrate», dichiara il direttore esecutivo dell’Ong Adyan. Per molti una delle vie per sopravvivere è abbandonare il paese. Secondo alcune stime, dal 2019 sono oltre 380 mila i libanesi, in gran parte cristiani, che hanno lasciato il paese, e secondo il media indipendente libanese The 961, le domande di passaporto per l’espatrio sono in media 8.000 al giorno.

L’impegno di Avsi per il Libano

Chi resta, cerca di ripartire anche grazie all’aiuto di società caritatevoli e organizzazioni non governative che da anni operano nel paese. La situazione di difficoltà che interessa tutti i libanesi è confermata da Jihane Rahal, responsabile per le comunicazioni di Avsi per il Libano: «I bisogni della popolazione libanese in questo momento sono tantissimi. Con la svalutazione della lira gli stipendi non valgono più nulla, i prezzi sono aumentati del 400/500 per cento. In questo contesto tutti coloro che hanno uno stipendio in lire libanesi si trovano molto in difficoltà». La responsabile per le comunicazioni di Avsi sottolinea che l’Ong si è attivata per rispondere all’emergenza, soprattutto dopo l’esplosione del porto di Beirut. «Abbiamo dei progetti di Cash for work tramite il quale creiamo opportunità di lavoro retribuito per le fasce di popolazione più vulnerabili. Le attività vengono fatte in collaborazione con le municipalità e sono lavori che hanno ricadute per tutta la popolazione, come ad esempio la pulizia dei giardini pubblici o il riciclo dei rifiuti».

Nel sud del Libano, dove risiedono molti dei rifugiati siriani (in tutto il paese sono circa 1,5 milioni), «stiamo riabilitando dei terreni in disuso creando degli orti, facendo lavorare persone della zona e il raccolto viene poi distribuito alle famiglie dell’area più vulnerabili e più bisognose», conclude.

Foto Ansa

Exit mobile version