L’Ilva verso il crac. Ma no problem, amici, arriva il decreto Renzi: #tarantostaiserena

Il decreto del governo sta per diventare legge. Ma fa acqua da tutte le parti. Perché ha una modesta dotazione e, soprattutto, come gli altri sei precedenti aggira il problema numero uno: le procure

Tre miliardi di euro. È l’ammontare dell’insolvenza Ilva certificata al 31 gennaio 2015 dal tribunale fallimentare di Milano che ha dato il nulla osta alla procedura di legge Marzano (spossessamento della proprietà e amministrazione straordinaria) per l’acciaieria di Taranto. Dall’estromissione dei Riva dalla conduzione dell’azienda, all’«esproprio senza indennizzo» (Marcella Panucci, direttore di Confindustria, audizione in parlamento 21 gennaio 2015), sono passati 30 mesi (agosto 2012-gennaio 2015). L’ultimo bilancio Ilva prima del massacro giudiziario iniziato il 12 luglio 2012 parla chiaro: a fronte di perdite per 35,5 milioni causate dall’aumento del 36 per cento delle materie prime, nel 2011 risultavano iscritti a bilancio oltre 6 miliardi di ricavi, in crescita del 30,4 per cento rispetto al 2010. Sempre all’anno 2011, in diciassette anni di gestione Riva, Ilva aveva registrato utili netti complessivi per 1,4 miliardi, interamente reinvestiti in azienda.

Tre miliardi di perdite in 30 mesi. Cento milioni al mese “bruciati”. Per trenta mesi. “Bruciati” dalle inchieste, dai provvedimenti giudiziari di sequestro, dall’asfissiante controllo di legalità che a tutt’oggi insiste sugli impianti (per due terzi ancora sotto sequestro), dalla impossibilità di rimettere in moto il ciclo produttivo, stendere un piano industriale eccetera eccetera. Tre miliardi in 30 mesi. Il doppio del costo dell’Aia, cioè degli 1,5 miliardi necessari per le bonifiche ambientali. L’equivalente di 30 mesi dell’intero monte salari dei 15 mila dipendenti Ilva (70 milioni al mese), più dieci cloni del “Fondo di garanzia” attualmente in decreto per i creditori Ilva; oppure, a scelta, più dieci ospedali oncologici per bambini, tipo quello promesso da Renzi (poi dimenticato dal decreto), dal costo cadauno di 30 milioni.

Due miliardi. Questa è la cifra che Renzi investirà a Taranto da marzo 2015, quando il parlamento avrà licenziato l’ennesimo decreto “salva Ilva”, che con i suoi 300 emendamenti dovrebbe essere approvato nei prossimi giorni. Per arrivare ai 2 miliardi ed evitare la chiusura di un polo manifatturiero che, a detta di Confindustria «vale lo 0,5 per cento del Pil italiano», Renzi calcola anzitutto di confiscare 1,2 miliardi detenuti dai Riva all’Ubs di Zurigo (capitale “scudato”, sequestrato dalla procura di Milano per un procedimento penale nel quale i Riva sono accusati di truffa ai danni dello Stato). A questo “tesoretto” si aggiungono altri 400 milioni di finanziamento ponte erogato da Cassa depositi e prestiti (Cdp), 260 milioni di prestiti messi a disposizione da Intesa San Paolo e Unicredit, 156 milioni di accantonamento Fintecna. E a quelle quattromila piccole e medie imprese (1.500 solo in Lombardia) che rischiano il fallimento perché creditrici di almeno un miliardo dei tre di insolvenza Ilva? Per questo indotto che a dicembre 2014 vantava crediti per 350 milioni in appalti, 200 in materie prime, 400 in filiera dell’energia, 100 in ricambistica, 60 tra servizi e smaltimenti, così come per gli autotrasportatori in sciopero (altro macigno sul ciclo produttivo perché a monte i fornitori non consegnano le materie prime, a valle gli autotrasportatori non consegnano i prodotti finiti), il decreto Renzi prevede un fondo di garanzia di 30-35 milioni, la prededucibilità dei crediti riferiti ai lavori ambientali e, forse, anche per quelli legati alla continuità degli impianti essenziali e la loro sicurezza.

Ma che ci siano le coperture finanziarie anche solo a questi 2 miliardi, ne dubitano sia i tecnici del bilancio dello Stato, sia gli addetti ai lavori. Sia gli autotrasportatori che hanno risposto picche all’appello del ministro Lupi di togliere l’assedio all’Ilva. Il nocciolo delle risorse sta nel conto Riva bloccato in Svizzera. A “frenarne” il rientro in Italia, nel pool di legali messo in campo dai Riva, pare se ne stia occupando anche l’avvocato Guido Rossi. Inoltre, non sembra così sicuro – come invece suppone il procuratore generale di Milano Francesco Greco, ispiratore dell’emendamento, fatto proprio dal governo, che converte in “obbligazioni” la somma sequestrata – che i giudici elvetici siano disposti a consegnare il denaro prima di vedere una sentenza passata in giudicato. In effetti, a quale quadro di Stato di diritto si ispira la notizia (Ansa), secondo la quale è «ipotesi, considerata molto remota che i Riva possano alla fine risultare vincitori delle diverse cause penali pendenti»? Porre sotto lo scudo della ragione di stato un sequestro avvenuto con una sentenza che deve ancora passare al vaglio di (due) altri gradi di giudizio, come minimo rappresenta una neanche troppo lieve pressione nei confronti dei giudici a cui spetterà la valutazione del caso in appello e, probabilmente, in Cassazione.

Comunque sia, ammesso e non concesso che i soldi sotto sequestro vengano resi disponibili in tempi brevi e certi, si tratta comunque di risorse che devono essere utilizzate per le bonifiche ambientali (Aia). Dunque, a conti fatti, per l’anno 2015, a disposizione dell’amministrazione straordinaria, restano i prestiti delle banche e la prima tranche (150 milioni) del finanziamento ponte della Cdp. In pratica, per i primi mesi di gestione, Ilva dovrà ricorrere ai 156 milioni accantonati da Fintecna all’epoca del passaggio di mano dell’Ilva dallo Stato ai Riva. Cioè soldi relativi agli oneri ambientali conseguenti alla gestione dell’acciaieria sotto il controllo di Iri e che ora rischiano di essere  bruciati per coprire le perdite gestionali della società.

Peggio dell’Etiopia di Menghistu
Insomma, dopo tre anni di intransigenza giudiziaria e tre governi (Monti, Letta, Renzi). Dopo un esproprio, due commissariamenti uni (Bondi) e trini (Gnudi, Carrubba, Laghi) e ben sette decreti “salva Ilva”, il risultato cumulativo è il seguente: dal 15 gennaio 2015, data della messa in liquidazione della Riva Fire, titolare del capitale di maggioranza in Ilva, la famiglia Riva esce dal (ex?) più importante polo siderurgico europeo iscrivendo a bilancio 2014 perdite per oltre 1 miliardo di euro e un patrimonio negativo per 333 milioni di euro. Ed esce, si legge nella relazione del Cda Riva Fire, sebbene «Ilva non ha versato in situazioni di insolvenza, quantomeno fino a oggi, né mai l’insolvenza di Ilva è stata accertata». Viceversa, dai trenta mesi di statalizzazione forzata, Ilva esce, come abbiamo visto, con 3 miliardi di insolvenza e 2 miliardi di pannicello caldo.

Parentesi. I Riva furono già espropriati una volta. Ma accadeva negli anni Settanta. In Africa, Etiopia, all’epoca di Menghistu, marxista-leninista-rivoluzionario. Paradosso vuole che all’esproprio il dittatore facesse seguire un assegno. Mentre oggi, nell’Italia di Renzi, lo Stato sfila senza risarcimento un colosso industriale a una famiglia che allo Stato ha pure offerto una estrema linea di credito. Se «il quadro complessivo subisse l’auspicata evoluzione positiva – scrive il Consiglio di Riva Fire – la società potrebbe essere richiamata dalla liquidazione». Di fatto, «nel bilancio consolidato 2011, Ilva vantava un patrimonio netto contabile di 4,202 miliardi, costituito principalmente dagli utili accumulati e non distribuiti ai soci». Nel triennio di offensiva giudiziaria e di commissariamento, «la normale gestione imprenditoriale è stata alterata» fino ad accumulare perdite, nel triennio 2012-agosto 2014, pari a 2,7 miliardi. Intanto, due fatti tolgono il sonno alla procura di Taranto (che dopo essere stata stigmatizzata dalla Corte Costituzionale per aver impugnato un decreto governativo, nel 2013 si spinse a sequestrare addirittura l’intero patrimonio dei Riva, ricevendo in risposta dall’Alta Corte la cancellazione «senza rinvio» del provvedimento, perché «abnorme» e «fuori dall’ordinamento»). In primo luogo, il decreto Renzi ha dato totale “immunità” ai tre commissari Ilva. Secondo, chi sognava di chiudere l’acciaieria e di passare all’incasso dei maxirisarcimenti è andato a sbattere contro la sentenza del Gup di Taranto Vilma Gilli. Che il 4 febbraio scorso, in conseguenza dell’ultimo decreto, ha ridotto da mille a seicento i soggetti legittimati a richiedere risarcimenti e ha sollevato i Riva dalla responsabilità di rispondere alle richieste risarcitorie per «disastro ambientale», pari a 30 miliardi di euro (di cui 10 miliardi ciascuno per Comune di Taranto e Provincia di Taranto).

Se lo dice Lotta Comunista
Resta la domanda: quanto costerà agli italiani lo scudo della legge Marzano per Ilva? Soprattutto, visto che «sembra un atto sotteso più a una finalità espropriativa che alla ricerca dell’equilibrio tra industria e compatibilità ambientale – come scrivono nella loro relazione gli amministratori di Rive Fire – della cui tenuta anche in relazione ai principi costituzionali e comunitari, fortemente si dubita», siamo sicuri che reggerà alla verifica delle normative nazionali e internazionali? Considerato il piglio del nostro presidente del Consiglio, non andrebbe però neanche esclusa l’ipotesi contenuta nel divertente ossimoro di Flavio Briatore. Il quale si è augurato per l’Italia, il paese meno appetibile d’Europa per gli investimenti industriali, un periodo di “Dittatura Democratica Temporanea”. «Però, sia mai succedesse, prima di piazzarsi a Roma, questa “Ddt” dovrebbe passare a Taranto», commenta scherzoso un politico locale di Prima Repubblica. «Ne abbiamo sopra i capelli di questa commedia. Certo, i Riva erano un po’ “ricchioni” – scusi la parola –, se ne sono approfittati. Però, non è che hanno fatto guai peggiori dell’Iri. Ma se gli facevano fare le bonifiche invece di fargli la guerra non era meglio per tutti? ‘U príse cchiù ‘u ggire e cchiù féte (il bugliolo più continua a girare e più puzza, ndr). A me nessuno toglie dalla testa che il caos giudiziario che abbiamo qui in Italia se lo sono inventati all’estero per portarci via la “robba”». Detto da sinistra e da Lotta Comunista, “organo dei gruppi leninisti della sinistra comunista” (gennaio 2015, pagina 11, titolo: “Il caso Ilva nella ristrutturazione europea”), può anche essere andata così. «Il vincolo europeo imponeva la privatizzazione dell’Ilva, venduta a Riva nel 1995 dopo le intese Andreatta-Van Miert… Nel giro di un decennio si erano poste le basi perché con la moneta unica una nuova accelerazione portasse nel 2002 alla concentrazione europea di Arcelor (Usinor-Aceralia-Arbed), acquistata dal gruppo indiano Mittal, con attività complessive pari a circa quattro Ilva. La siderurgia italiana restava fuori dall’ondata di fusioni. Nel 2001 Riva aveva preparato l’Opa su Usinor, ma aveva rinunciato all’ultimo minuto. Vantaggi e svantaggi del capitalismo familiare sono questione controversa. Nel caso dei Riva, tale forma ha sì consentito rapide decisioni e la centralizzazione delle attività, incluso il superamento delle inefficienze clientelari ereditate dal meridionalismo dell’Iri, ma ha lasciato esposta l’azienda alle mille manifestazioni dello squilibrio italiano…». A riguardo delle «mille manifestazioni dello squilibrio italiano», torna alla mente un siparietto. Accadeva in margine alla polemica suscitata dalla pubblicazione delle intercettazioni di una conversazione tra Nichi Vendola, leader Sel e governatore della Puglia, e Girolamo Archinà, responsabile delle relazioni istituzionali Ilva. Il 15 maggio 2014, durante la registrazione di un programma di La3, l’ex dirigente Fiom e deputato Sel Giorgio Airaudo viene registrato in un interessante fuorionda. «La cosa che davvero a me ha colpito è che lui (Vendola, ndr) non avesse un canale diretto con Riva. Non so se è chiaro. Il presidente della Regione Puglia non parla con i sottopancia del merito. Il presidente della Regione Puglia chiama Riva e dice: “oh!”. Aggiungo che c’è un problema che riguarda la magistratura che noi in Italia non possiamo affrontare perché veniamo da Berlusconi. Cioè: qual è l’autonomia di un amministratore pubblico eletto su un caso come l’Ilva? Cioè, l’Ilva ha iniziato a inquinare quando era ancora pubblica, hai un pescecane come Riva, che gliel’hanno regalata, che sta guadagnando al massimo, tu non hai chiara la dimensione… Il Cral dell’Ilva è fatto della Tenuta Vaccarella, dove ci sono le barche a vela della Taranto bene ed è dei sindacati dell’Ilva, il palazzetto dello sport di Taranto si chiama Palafiom. Altro che la Fiat di Valletta».

Ecco chi comanda in Italia
Sulla capacità dello Stato di gestire le aziende esiste una ricca casistica socialista. Ovvero, detta con un calco dell’aforisma di Gordon Gekko, se lo Stato vendesse bare, non morirebbe più nessuno. Perciò, dice a Tempi Antonio Gozzi, presidente di Federacciai di Confindustria, «l’intervento straordinario dello Stato in Ilva ha senso solo transitoriamente. Occorre al più presto riportare l’azienda sul mercato». Quanto al merito del decreto Renzi? «Rischia di essere precario. Sul versante delle risorse fa molto affidamento sul miliardo e due dei Riva. Ma sono davvero disponibili questi soldi? Io non lo so. Per il resto, tra Cdp e Fintecna si arriva sui 500-550 milioni. Ma c’è un’Aia da un miliardo e mezzo da realizzare. C’è un altoforno da rifare e costa 250 milioni. Ci sono gli interventi di manutenzione straordinaria e le perdite a gogò di ogni mese. Per ripartire, Ilva avrebbe bisogno di quei due miliardi subito. Ma poi, perché mancano i soldi? Mancano perché si è scelta la strada dell’amministrazione straordinaria invece della ricapitalizzazione, magari con un mix Stato-privati». Già, e perché questa scelta di lasciare fuori i privati? «Per il solito problema del “convitato di pietra”, cioè la magistratura. Quale privato, imprenditore, italiano o straniero che sia, è disposto a investire in un’azienda che ha gli impianti sotto sequestro e per i quali la magistratura concede facoltà d’uso solo in presenza del pubblico ufficiale, nel caso, il commissario di governo? Non funzionano così le imprese. Così, falliscono. Nel decreto Renzi non posso non cogliere questa debolezza strutturale: come nei precedenti manca totalmente il chiarimento sulla questione di fondo, di carattere costituzionale, e cioè la questione se le aziende debbano restare aperte o chiuse per decisioni della pubblica amministrazione o per sentenze della magistratura. È un conflitto tra poteri dello Stato grosso come una casa. L’ex ministro Corrado Clini aveva provato ad affrontarlo inviando un quesito alla Corte Costituzionale. È finita come è finita. Dopo di che, in nessuna parte d’Europa il magistrato penale può far chiudere uno stabilimento. Un magistrato persegue reati, responsabilità penali personali. Ma che un impianto industriale sia agibile o no, questo in ogni parte d’Europa lo decide la pubblica amministrazione; lo decidono le procedure, le norme, i vincoli dettati dalla pubblica amministrazione, non dai pubblici ministeri. Finché non si cambia questo, Renzi o non Renzi, l’Italia resta impantanata. Purtroppo la politica che dovrebbe investire la Corte Costituzionale di questo stallo, micidiale per il sistema industriale, sta zitta, scappa, è paurosa. Ma se non si scioglie questo nodo, è difficile che arrivino investitori nazionali o stranieri. Vale per Ilva e vale per tutte le imprese. Finché il conflitto tra poteri dello Stato graverà come spada di Damocle, non ci sarà nessun incentivo a investire in Italia». Dopo di che, #stavaserenoLetta, #staràserenaTaranto.

@LuigiAmicone

Foto acciaieria da Shutterstock

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