Il terremoto dell’Emilia e la riscoperta delle robe indispensabili

Reportage dalle zone colpite dal sisma dove le abitazioni in un baleno hanno smesso di essere dimora. Il terremoto ha portato via tutto. Ma ha costretto a mendicare cose di cui si era persa la memoria

«Pronto, siete ancora vivi?». La domanda, prima, sarebbe stata assurda. Prima del terremoto. Ma dopo, dopo che già la prima scossa del 20 maggio era arrivata come una folgore e si era portata via un pezzo di paese. E dopo, dopo che la seconda, quella del 29, quella inattesa, quella che aveva fatto staccare il comignolo dal tetto che come un meteorite s’era abbattuto sulla testa del povero Sergio Cobellini, pensionato, 68 anni, che tutti a Concordia conoscevano, ecco, dopo quella seconda, l’interrogativo non era poi così balzano. «Sì, siamo vivi. E tu come stai?».

Paola e Gianni avevano casa e negozio – attività familiare dove si riparavano con maestria orologi d’epoca – nel centro di Concordia. Oggi Concordia è zona rossa, recinto di macerie, interminabile labirinto di massi che furono case. Oggi Paola e Gianni non hanno più niente, ed è forse anche per questo che si rendono conto «di avere tutto l’indispensabile per ricominciare». Vicino al loro negozio c’era un bar di cinesi. I cinesi sono tutti uguali. E questi sono uguali a tutti gli altri sparsi per i quattro cantoni del mondo. Per questo, dopo la prima scossa, avevano cominciato a lavorare con più lena di prima e, in particolare, una figlia – una figlia cinese uguale a tutte le altre figlie cinesi di questo pianeta: volitiva, seria, diligente – aveva spazzato via dal pavimento i detriti e riaperto subito il bar, ché «c’è un mutuo da pagare».

Poi la seconda raffica s’è portata via di nuovo quel che era rimasto in piedi. Non solo abitazioni di mattone, ma anche speranze e illusioni che, in fondo, «il peggio è passato». Il terremoto è «la terra che ti trema sotto al culo», dicono. E solo chi come Gianni s’è fermato sotto la pioggia mortale che veniva giù dai tetti a soccorrere inutilmente il povero Cobellini, e solo chi come Paola s’è presa sotto braccia la suocera novantenne per portarla in salvo percorrendo di corsa (si fa per dire) il viale del paese, sa cosa vuol dire sentire che la terra ti manca – letteralmente – sotto i piedi e che il cielo ti piomba – letteralmente – sopra la testa. «Per questo – spiega Gianni – la domanda al telefono di quella ragazzina che voleva sapere se eravamo vivi, non era così assurda».

Le chiacchiere coi terremotati dell’Emilia sono inutili. Progetti, prospettive, pianificazioni sono pensieri che riguardano il passato. Parlare coi terremotati significa entrare con prepotenza nel presente di tutto quel che c’è e di tutto quel che non c’è.  Si discute di porte lasciate aperte anche quando si va in bagno «per avere sempre una via di fuga», di tetti da sistemare, di cibo da mangiare, di letti estranei in cui dormire la notte, di soldi (e tanti) che servono più dell’aria. Il terremoto porta via “la roba”. La roba che si è accumulata in una vita, affastellata da qualche parte in qualche recondito sgabuzzino, la roba costata sacrifici per rendere meno amaro il futuro. La roba che oggi non c’è più. Nemmeno la roba che si voleva per magnificare Dio. Nemmeno quella c’è più.

Don Franco, ad esempio. Don Franco è il vecchio parroco di Concordia. È qui da trent’anni e in trent’anni gli abitanti del paese hanno imparato ad amarlo e rispettarlo. Con pazienza ha messo a posto la parrocchia e la canonica. Costanza, ma anche cura e ingegno. L’ha ristrutturata piano piano, mettendo via i centesimi delle offerte. Ha fatto fare le rifiniture, riportato alla luce vecchi dipinti, tutto per lasciare – quando Dio lo vorrà – una chiesa in ordine. Bella, pulita, luminosa. Il terremoto l’ha soffiata via come fosse un castello di carte e una qualche trave ha perfino decapitato la statua del Cristo. «La mia chiesa cui ero tanto attaccato», ha detto il don ai parrocchiani. «Forse troppo», ha sospirato. Oggi è un terremotato anche lui che dorme di notte coi pugni serrati e consuma di giorno le suole visitando i fedeli sparpagliati ai bordi del paese. Durante una Messa ha spiegato loro di sentirsi come Giobbe, cui fu tolto tutto per scoprire che il tutto c’è ancora. E così ha detto che «oggi che dormo in un letto che non è il mio, oggi che non ho più la canonica e la chiesa, ho capito che la Chiesa sono le pietre vive. Le persone. È questo che lascerò quando sarò terra da fiori. La Chiesa c’è già, la fede non è crollata».

Settanta ospiti nel prato
Anche don Andrea, parroco di Budrione, frazione di Carpi, parla di roba. È tutta quella che c’è scritta sui foglietti che si porta in tasca. Pure lui un terremotato, «che dorme in macchina» nella spianata accanto alla chiesa, traballante pure lei. Qui ha organizzato “un campo”, agglomerato tutto sommato ordinato di tende e qualche container. «Tutte cose di amici che tramite altri amici e amici di amici…». Sono una settantina di persone che in casa non ci possono più entrare e che don Andrea ha ospitato lì, sul prato davanti alla canonica. La gente ha iniziato ad arrivare già dopo la prima scossa, «quando le mura ondeggiavano anche di un metro e l’asfalto si gonfiava sotto i piedi». Alcuni avevano iniziato a dormire fuori da quelle abitazioni che avevano smesso in un baleno di essere dimore. Un marciapiede come guanciale la notte, un alberello come tetto di giorno.

«La provvidenza arriva sempre»
Si cerca di tornare alla normalità, ma non è facile. Basta il clangore di una pentola al suolo o lo scricchiolio di una vecchia sedia per far balzare tutti sull’attenti. C’è lo stress di intere famiglie accampate in tende comuni, il freddo siberiano di certe notti e il calore subsahariano di certi pomeriggi. E poi l’incertezza di che cosa succederà domani alla roba di un tempo. La stessa crepa, la stessa breccia, la stessa ferita nel muro è ora segno della necessità di una ristrutturazione e ora di un inderogabile abbattimento. «La canonica dovrebbe stare su». «La canonica dovrebbe cadere». È il condizionale il modo verbale dei terremotati. E se cade? «Sposti il letto, giri la sedia, mi hanno detto. Ma si può?».

Così don Andrea, con tutti i suoi foglietti in tasca, gira fra la gente cercando di dare risposte alle esigenze spicciole di tutti i giorni e ai grandi interrogativi millenari. Ma con pochi discorsi pindarici e sempre stando sul concreto, perché l’imprevisto a volte ha il sapore di un bel cespo di lattuga. «Lo Stato non so, ma la provvidenza arriva sempre», ride serafico, indicando col dito ora quello ora quell’altro. Tutta brava gente di paese, che si dà da fare per ricominciare, ognuno con la sua piccola storia di grande generosità, che passa per le mani callose di manovali più pratici di vanghe e cazzuole che di libri e notebook.

Ora che il sisma si è portato via la roba e ha lasciato lo stretto indispensabile (una pelle come vestito e quattro carabattole infilate alla rinfusa in qualche garage), don Andrea sa che c’è una “roba” che è più richiesta di altre: «Si chiama condivisione perché l’unica risposta accettabile è una compagnia. Il resto sono cazzate». Ma perché non sia solo un accumulare risentimenti e lamentele di chi rivuole indietro il mondo di prima, e perché non sia solo il rimedio effimero di qualche buona parola per tirare sera, don Andrea ha bene in mente che tale condivisione deve ritrovare ambienti e momenti, gesti e spazi. Non esiste condivisione senza luogo e oggi, in tutta la diocesi di Carpi, sono agibili solo 3 chiese su 50. «C’è da ricostruire come dopo il 1945», dicono quelli che allora erano bambini. E don Andrea sa che anche la chiesa e la canonica sono “roba” un po’ speciale e per questo è un po’ preoccupato: «Tanto quanto le tende è essenziale ricostruire una vita di comunità, altrimenti, ognuno per conto suo, ci si smarrisce e si finisce col passare le giornate col mento fra le mani e i gomiti sulle ginocchia. Per questo io dico: tutti sotto la croce e via!».

Anche la paura è oggettiva
A Carpi c’è la cooperativa sociale Il Nazareno che ospita circa 150 tra disabili e persone affette da disturbi mentali. Il terremoto è arrivato anche qui, senza fare troppi danni, a parte la paura. «Ma anche la paura è una cosa oggettiva», dice il responsabile Sergio Zini. Qui come altrove si attendono i rilievi delle autorità che diranno se la struttura (quella più vecchia, perché quelle di recente costruzione non hanno problemi) è agibile o meno. Intanto, seguendo anche lo spirito originario dell’opera, si è tornati subito al lavoro. «I ragazzi – racconta Zini – hanno grande capacità di adattamento. Si sono spaventati come tutti, ma già in questi giorni si sono subito rimessi intorno a un tavolo di lavoro». E, in effetti, il centro brulica di attività: si montano componenti elettrici, si prosegue nella lavorazione di manufatti, si raccolgono menta e piselli dall’orto. Qua e là, sparse sul parco del Nazareno, le tende di chi ha avuto bisogno di chiedere a questi ragazzi di “stringersi un po’” per far spazio a chi oggi non ha più casa. Accade anche questo nel mondo sublunare dell’Emilia scossa dal sisma: che quelli che, fino a ieri, avevano tutto, oggi abbiano bisogno di chiedere a chi, di solito, si pensa non possa offrire nulla. È il paradosso del terremoto: costringe a mendicare “robe” di cui si era persa memoria.

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