Il potere del finto contropotere. Cioè Mario Calabresi

Oggi, essendo la Repubblica in marcata difficoltà a rientrare dall’orbita del pianeta Marte nelle edicole terra terra, il direttore si inventa ogni genere di retorica e convegnistica antifascista

Pur appartenendo notoriamente a una razza ciellin-berlusconiana inferiore perfino a quella del professor Blangiardo, in questo week-end mi sarei apprestato a celebrare il sindaco di Milano Beppe Sala, espressione di una maggioranza di sinistra ambrosiana che venerdì scorso ha validamente rappresentato la varietà partitica (grillini compresi) di un’area metropolitana di qualcosa come cinque milioni e mezzo di abitanti che si è finalmente decisa a mettersi insieme.

«Senza se e senza ma», come hanno dichiarato giovedì 29 novembre i convenuti bipartisan in Villa Reale monzese – il già citato Sala, il sindaco FI Dario Allevi, l’altro forzista di Sesto San Giovanni Roberto Di Stefano e Giacomo Giovanni Ghilardi, primo cittadino leghista di Cinisello Balsamo – per costruire l’ennesima infrastruttura metropolitana al servizio dei cittadini. Dopo di che, forte e unanime è stato il sostegno alla Tav che il povero don Abbondio ministro Toninelli dice di essere ancora lì col pallottoliere, a conteggiarne «costi e benefici».

Poi però ho dovuto ripensarci. Il giorno successivo, infatti, venerdì 30 novembre, il direttore di Repubblica ha dato alle stampe due scritti molto importanti. Un editoriale ultimatum allo Stato italiano sul caso Regeni. E una copertina del Venerdì con una «intervista esclusiva a Nanni Moretti». “Ecce Nanni”. Il quale avrebbe girato un film dell’altro mondo: Santiago, Italia. Con una reincarnazione bestiale in questo mondo. (“Salvini-Pinochet”, sticazzi). Mi son detto, vuoi vedere che questo qui è Pico della Mirandola, l’alba di un nuovo Rinascimento?

Sentite che prosopopea: «Lo Stato ci deve la verità su Regeni». «Il limite della dignità è stato superato». «La decisione della Procura di Roma non è solo un “atto giusto, forte e coraggioso”, come ha detto il presidente della Camera Roberto Fico». E via a celebrare i prodi magistrati romani che per non star lì a occuparsi di pinzallacchere della Urbe capitolina (che però al confronto Il Cairo è New York), hanno messo sotto inchiesta nientemeno che i servizi segreti e apparati di sicurezza egiziani. Perbacco, ma è proprio il direttore Mario Calabresi che detta ultimatum allo Stato e ci riscodella il regista più triste del mondo in chiave visionaria karmica?! È così. Siamo a Repubblica. Niente meno che nella “Bocca della verità”, tipo quella che sta scolpita a Bomarzo, Roma, “Parco dei Mostri”.

Allora ho trovato consolazione nei ricordi. Ad esempio in quel discorso che il sostituto di Ezio Mauro fece alla redazione di Repubblica il giorno seguente il suo trasferimento a Roma dalla Stampa di Torino. Poco meno intenso di un paragrafo delle memorie di Michelle Obama. Pollice verde al futuro dell’informazione che si sarebbe leccata i baffi con i temi dei “diritti” obamiani. A proposito dei quali, come capita a tanti morbidoni di sinistra pagati profumatamente per dire niente, diceva il nuovo direttore di Repubblica, «l’Italia è in ritardo».

Oggi, essendo la Repubblica in marcata difficoltà a rientrare dall’orbita del pianeta Marte in cui si trova per tornare nelle edicole terra terra, Mario Calabresi si inventa ogni genere di convegnistica antifascista, all’uopo di contrastare il famoso “fascismo” che minaccerebbe la famosa “libertà di stampa”.

E per un sovrappiù di bulimia di sé medesimo, Calabresi permette al direttore di Repubblica di autocitarsi pure in uno spot lievemente sopra le righe che compare in ogni articolo del sito web di Repubblica. «Noi non siamo un partito, non cerchiamo consenso, non riceviamo finanziamenti pubblici, ma stiamo in piedi grazie ai lettori che ogni mattina ci comprano in edicola, guardano il nostro sito o si abbonano a Repubblica. Se vi interessa continuare ad ascoltare un’altra campana, magari imperfetta e certi giorni irritante, continuate a farlo con convinzione. Mario Calabresi». Non sono un partito. Non cercano consenso. E sono “un’altra campana”. Scusa, vai avanti tu che a me viene da ridere?

Quanto alla trovata pubblicitaria del “Salvini-Pinochet”. E chi, senza quella trovata, si sarebbe filato il film di un regista sparito dai radar, sia per la sua grottesca faziosità, ma soprattutto per la tristezza universale che ha infuso a generazioni di spettatori di sinistra? Nell’intervista-spot pare che il nostro Ecce Nanni confessi che ha fatto un film sul Cile di Pinochet per una sorta di premonizione onirica. Però non si capisce se gli è apparso in visione l’arcangelo Gabriele o direttamente Harry Potter. Lui dice solo che «appena Salvini è diventato ministro ho capito perché lo avevo girato». E aggiunge Repubblica: «Moretti confessa il suo disagio di uomo di sinistra di fronte all’attuale situazione politica italiana e a un Paese che, al contrario di quello che succedeva negli anni Settanta, sembra aver perso i valori fondanti comuni».

Già, i famosi “valori fondanti comuni” degli anni Settanta. Quando sprangavano e sparavano per strada. Però adesso che la sinistra è fuori dal mondo, giustamente “l’uomo di sinistra” Moretti è “a disagio” nel vedere volteggiare nei cieli dell’Italia i caccia bombardieri di Salvini-Pinochet. Ecco, nel week-end di paura abbiamo scoperto perché il profeta Ezechiele Ecce Nanni si è sentito in dovere di tornare a farci lievemente sboccare da dietro una telecamera. Per quanto il piccolo Budda della sinistra sia appena tornato in Cielo dopo una carriera che infine sarà ricordata solo per la scena del famoso burro (e tra l’altro, burro che un tempo per la sinistra significava trasgressione, oggi indignazione alla margarina: ma quanto sono ipocriti rispetto a noi che ci è sempre piaciuta la Brigitte Bardot?), colpisce che il direttore di Repubblica cavi dal buco un regista che più frantuma zebedei di lui, direbbe il loro Paolo Villaggio, c’è solo la Corazzata Potemkin.

Ma la sinistra che in Calabresi ritrova il fanciullino che piange e fa la vittima al fine di recuperare un qualche osso del potere e delle prebende e delle clientele che il Pci-Pds-Ds-Pd ha detenuto ovunque prima dell’improvvisa rotta delle proprie truppe a partire dal 4 marzo scorso, in questo fine di 2018 appare semplicemente vuota di idee e scornata in ogni direzione. Non attacca più la solfa della sinistra baluardo della verità contro “i misteri delle stragi” e simbolo di “Mani pulite” contro i disonesti, su cui Repubblica ha costruito miti falsi (a partire dalla famosa intervista di Scalfari a Berlinguer). Per poi regalare questa eredità al Fatto Quotidiano, prima via Di Pietro e ora via Di Maio (e si vede con quali risultati).

Resiste, è vero, la scandalosa ignoranza diffusa a piene mani nelle scuole e nelle università. Dove dagli anni ’70 ripetono fino alla noia le malefatte di Pinochet, che comunque ha restituito il Cile alla democrazia e alla crescita socio-economica, dopo che il socialismo di Allende lo aveva portato alla fame. E si ripetono sempre uguali le storie e le crudeltà dei colonnelli argentini, che comunque passati loro e arrivata la sinistra al potere l’Argentina è fallita già due volte.

Ma pensate un po’, quando mai un giornale come Repubblica, che da mezzo secolo è l’opera di un Soros de’ noantri («senza i miei giornali la sinistra non sarebbe andata al governo», ammise Carlo De Benedetti nella sua prima biografia scritta da una penna di Repubblica), ha avuto la propensione a raccontare e a far circolare nei convegni, nelle scuole, nelle università, negli ambienti di lavoro, il gusto della conoscenza e della memoria di quel cancro del pianeta che con il nazismo è stato il comunismo?

Tant’è, loro sono ancora qui a difendere Cuba e il Venezuela. Insomma, parlano a vanvera ma hanno iniziato ad atteggiarsi a duchesse del Sussex. Cambiano il pelo. Ma non le puzzette. Letteralmente. Tant’è che la “vanvera” era la guaina che indossavano sui glutei le nobildonne veneziane, collegata a un recipiente chiuso (autoreferenziale come certa informazione?) per consentire alle signore di “liberarsi dell’aria”. Senza inverecondia di sé e senza imbarazzo altrui.

Foto Ansa

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