Il populismo di T. S. Eliot

Così cento anni fa il futuro premio Nobel invocò l'alleanza tra conservatori e populisti per liberare le comunità naturali dall'anti-cultura livellatrice delle élite

Per gentile concessione di First Things, proponiamo di seguito in una nostra traduzione un articolo di Robert C. Koons, professore di Filosofia all’Università di Austin, Texas, apparso nel numero di dicembre della rivista americana. Il testo è stato pubblicato anche nel sito di First Things (qui l’originale in inglese).

Che cosa definisce l’essenza del populismo? Che cosa propone, e a cosa si oppone? T. S. Eliot ebbe alcune intuizioni al riguardo, quasi cento anni fa. In Appunti per una definizione della cultura, egli tratteggiò una fruttuosa distinzione tra l’upper class (la classe superiore, ndt) e l’élite. La classe si eredita dai propri antenati ed è perciò legata alla famiglia e alla terra. L’adesione all’élite, invece, si acquisisce attraverso la padronanza di determinate materie e tecniche, in genere nell’ambito di università cosmopolite selezionate. Come sostiene Eliot, la classe è intrinsecamente conservatrice e offre un terreno fertile per la creatività letteraria e artistica, mentre una società dominata dalle élite perde la continuità della tradizione ereditata e soffre di una sterile ossessione vero il nuovo nell’arte.

Alla distinzione di Eliot tra classe ed élite corrisponde la distinzione tra i “livellatori” (“levelers” in inglese, ndt) e i populisti. I livellatori cercano di distruggere la stratificazione delle classi, e con essa l’intera vita dei nuclei familiari e delle comunità locali. Il populismo, invece, può essere una reazione ragionevole e salutare al dominio delle élite. È un alleato naturale del conservatorismo.

I livellatori hanno da ridire su ogni tipo di gerarchia, per quanto antica e veneranda: quella dei genitori sui figli, dei preti sui parrocchiani, della nobiltà sulle classi inferiori. I populisti si concentrano invece sulla liberazione delle comunità naturali da quanti comandano nel nome della ragione, della scienza, della professionalità o della competenza (manager, burocrati, accademici) così come dalle grandi organizzazioni (agenzie governative, università, multinazionali) che incarnano il medesimo spirito di metodo e di sapere astratti.

A differenza di Marx, Eliot non definisce la classe in termini di funzione economica o politica. Per lui le classi sono definite sulla base della condivisione di un modo di vivere, acquisito innanzitutto attraverso la famiglia e in secondo luogo attraverso l’educazione, i club, le attività del tempo libero e altre forme associative su scala ridotta e di carattere personale. L’ingresso in una classe sociale richiede come minimo una generazione, sovente parecchie.

La parola “grado” (“echelon” in inglese, ndt) coglie bene la concezione funzionalista, politico-economica di classe in Marx. I gradi si definiscono in termini di economia politica, e cioè sulla base del livello di controllo sulle risorse e sulle organizzazioni, compresi il proprio tempo e il proprio lavoro, esercitato attraverso la ricchezza, il mestiere o la posizione lavorativa.

Abbiamo perciò due tipi di gerarchia: la gerarchia di classe e la gerarchia di grado. La prima poggia su relazioni di onore, rispetto, influenza, attenzione e responsabilità tra le classi sociali. La seconda dipende dalla capacità di comprendere e gestire le persone e l’ambiente. In entrambi i casi, vi è la tendenza nella gerarchia a corrispondere a un ordinamento lineare, dall’alto verso il basso. La nobiltà costituisce la classe più alta, l’élite il grado più alto.

I livellatori, compresi gli odierni liberal e i marxisti culturali, attaccano la legittimità della gerarchia di classe a motivo del fatto che nella gerarchia di classe non ci si guadagna il proprio posto. Uno status di classe potrebbe essere giusto, secondo i livellatori, solo se ogni persona in qualche modo “scegliesse” i propri avi (come disse una volta a mo’ di battuta Bertrand Russell). L’ingresso nella upper classe non può essere considerato una giusta ricompensa, dal momento che nessuno di noi è responsabile delle circostanze in cui nasce. Perciò i livellatori di credo liberal insistono che la sola società giusta è quella meritocratica, nella quale gli individui sono suddivisi in gradi in base alle loro caratteristiche individuali: talento, carattere, risultati personali e così via.

Questo liberalismo livellatore e meritocratico è una precaria via di mezzo tra il rigido egualitarismo (come quello di John Rawls) e la convinta difesa delle classi sociali di Eliot. Del resto, così come non scegliamo il nostro lignaggio, noi non scegliamo nemmeno il nostro patrimonio genetico. E non pare del tutto coerente presupporre che ci scegliamo un carattere morale, dal momento che la scelta di un buon carattere anziché di un cattivo carattere sarebbe già la dimostrazione che si ha (in certa misura) un buon carattere.

Inoltre, puntualizza Eliot, i livellatori confidano in una antropologia atomistica che ignora che gli esseri umani sono formati da e all’interno di una classe sociale. La classe è essenziale per l’individuo, non è soltanto accidentale ed estrinseca.

Il livellamento può essere difeso, comunque, su basi consequenzialiste. I livellatori sostengono che le istituzioni che premiano i risultati individuali, il talento spontaneo e l’indole morale assicurino lunga prosperità per tutti; quelli che premiano soltanto caratteristiche estrinseche, come l’appartenenza a una classe sociale, invece no. Di contro, Eliot semplicemente respinge l’ideale della rigida meritocrazia e ribadisce la tesi secondo la quale una gerarchia di classe è indispensabile per la creazione e la conservazione della vera cultura.

Per cogliere il punto di Eliot, dobbiamo prima comprendere cosa esattamente egli intenda per “cultura”. Gli antropologi professionisti tipicamente definiscono la cultura in modo tale che qualunque gruppo di esseri umani potrebbe avere una cultura, nel senso di un modello di attività correlate. Eliot invece definiva la cultura in maniera più precisa: una cultura è un modo di vivere più profondo, l’incarnazione di una religione condivisa, che emerge in forme più o meno coscienti. La cultura di un popolo è sempre una incarnazione particolare, in un luogo e in un tempo particolari, di una religione universale (o quasi tale). È probabile che due regioni in determinati momenti nel tempo incarnino la medesima religione altrettanto bene in modi differenti: prendete la cultura dei dissidenti inglesi e quella dei contadini irlandesi o dei benedettini italiani, o la poesia di Eliot e quelle di Dante o di Alexander Pope. Anche le divagazioni e i passatempi di una comunità possono essere espressione della sua vita religiosa, dai festival esplicitamente religosi alle scommesse sui cavalli o alla lettura dei giornali al bar.

In Eliot la definizione di cultura come religione incarnata crea la possibilità di un’anti-cultura. Una società puramente secolare e non religiosa sarebbe priva di cultura in questo senso. Allo stesso modo, ne sarebbe priva una società che sia riuscita a privatizzare la religione al punto tale che essa, qualora sia ancora incarnata, lo sia esclusivamente a livello delle vite individuali. Infine, anche una società la cui religione dominante sia quella gnostica sarebbe anti-culturale. Per “religione gnostica” intendo una religione o una quasi religione che respinga la possibilità stessa del suo incarnarsi in questo mondo e in questa epoca. Una filosofia come il marxismo o il moderno liberalismo, che respinge le istituzioni sociali esistenti e invoca la loro completa sostituzione, è parimenti anti-culturale nel senso inteso da Eliot (quanto meno finché l’eschaton non sia riuscito a immanentizzarsi).

La vera cultura al massimo livello è il prodotto di una élite artistica e critica, ma un’élite che è fondata in, nutrita da e responsabile verso la upper class. I grandi artisti non vanno avanti solo con il proprio talento e la propria etica. Vengono formati e promossi dalle istituzioni dell’upper class.

Una società con una cultura sana, sostenuta da una gerarchia di classe, realizza tale cultura su due piani, uno relativamente incosciente (la cultura popolare) e l’altro relativamente cosciente e riflessivo (l’alta cultura). Una società livellatrice e dominata dall’élite produce qualcosa di assai diverso: il piano relativamente incosciente della cultura pop e il piano più cosciente dell’anti-cultura di élite.

L’intrattenimento pop è una impresa puramente commerciale, un’imitazione e una distorsione della cultura popolare. È come una droga ma transitoria, stuzzica gli appetiti di novità e distrazione. In una società livellatrice è l’intrattenimento pop il vero oppio dei popoli: stupefacente, anestetizzante, di evasione. La cultura popolare, al contrario, è durevole, non commerciale e anonima, ed è perpetuata da famiglie, scuole e club. Unisce i membri di una comunità locale, i vivi, i morti e i non ancora nati, è una fonte di memoria collettiva.

L’alta cultura è la riarticolazione della cultura popolare su un piano più cosciente e riflessivo. L’alta cultura è più mutevole della cultura popolare, eppure le sue produzioni migliori durano almeno quanto la cultura popolare. L’anti-cultura dell’élite ha bisogno della cultura per farlo, per livellare, e così favorisce l’arte ironica, ideologica e contraria (creata e promossa da una élite livellatrice). L’anti-cultura dell’élite ignora totalmente la cultura popolare, offrendo un pasticcio ironico di intrattenimento pop e pubblicità, come con Andy Warhol e il suo dipinto di lattine di Campbell’s Soup. Si compiace nella profanazione del sacro, per esempio mescolando simboli sacri con escrementi e urina, o sovrapponendo una sessualità deviata e trasgressiva alla vita ordinaria, compresa quella dei bambini e della famiglia. L’anti-cultura guarda all’alta cultura con un disdegno saccente e altezzoso, rispecchiando il proprio nichilismo e rigettando quel che ai suoi occhi è un culto ingenuo della bellezza, dell’ordine o del senso. Anziché costruire sul passato, l’anti-cultura deve distruggerlo, giudicando gli artisti del passato (compreso lo stesso Eliot) secondo gli standard contemporanei dell’egualitarismo.

Eliot presume, a ragione secondo me, che una società senza classi sarebbe una società “dominata esclusivamente dalle élite”. Il sogno di Marx della perfetta eguaglianza sociale è una fantasia senza fondamento. In mancanza di una upper class, i manager e gli esperti scientifici eserciteranno un’influenza smisurata sulla direzione della società in ogni aspetto, inclusa la religione, l’educazione e la cultura.

Questa élite senza classi sarà necessariamente una élite anti-culturale. Dal momento che i suoi membri non apparterranno a una sola classe, essi non avranno alcuna cultura né abitudini comuni, ma saranno uniti solo da convinzioni e impegni coscienti, verbali e razionali. Scrive Eliot: «Le élite, di conseguenza, consisteranno unicamente di individui i cui soli legami saranno i loro interessi professionali: con nessuna coesione sociale, con nessuna continuità sociale. Saranno uniti solo da una parte, e la parte più cosciente, delle loro personalità; staranno insieme come stanno insieme le commissioni».

I college, perfino quelli dell’Ivy League, erano una volta questioni locali e regionali, servivano i membri di comunità relativamente compatte. Oggi, con la creazione (per mezzo di test standardizzati) di un bacino di iscrizioni unico, multinazionale e fortemente competitivo e con il reclutamento di professori sulla base principalmente della loro reputazione nella ricerca anziché della loro fedeltà a una tradizione di studio e di sapere, le comunità accademiche sono diventate esattamente il tipo di commissione sterile descritto da Eliot, unita solo dalla competenza tecnica e dalle dispute ideologiche. Nelle materie umanistiche, abbiamo smarrito il ruolo tradizionale della critica, esemplificato da Samuel Johnson, Donald Davidson e Eliot. I critici sono stati rimpiazzati da esperti accademici privi di sapienza ma forti di un certo apparato teoretico.

Questo anti-culturalismo elitario ha radici politiche ed economiche. La ricchezza che deriva dall’eredità di terreni o di piccole aziende corrisponde al dominio economico della classe, il quale sostiene sia la conservazione costituzionale sia il cambiamento locale. Il dominio di una classe manageriale senza radici, prefigurato oltre settant’anni fa da James Burnham nel suo La rivoluzione manageriale, è una versione elitista del capitalismo che minaccia molto di quanto i conservatori difendono, un aspetto colto da G. K. Chesterton, Hilaire Belloc, Wilhelm Röpke e Robert Nisbet.

All’epoca della fondazione americana, i federalisti cercavano di combattere il livellamento attraverso istituzioni che favorivano la upper class. Negli ultimi due secoli, tuttavia, la nostra economia ha subìto la rivoluzione manageriale, la popolazione è aumentata, l’educazione superiore è stata nazionalizzata e globalizzata e il potere si è concentrato a Washington, instaurando il dominio di una élite culturalmente progressista al posto di quello di una classe conservatrice e aristocratica. Nel contesto moderno, quindi, i populisti devono cercare di ridimensionare proprio il potere di alcune delle istituzioni che furono erette dai federalisti conservatori, compreso il Senato degli Stati Uniti e la magistratura federale.

I leader e gli intellettuali che perseguono la riforma populista non devono essere attinti esclusivamente dalla upper class, ma devono essi stessi trarre la loro visione da quella upper class ed esserne sostenuti. Altrimenti non potranno partecipare fedelmente del sapere pre-cosciente, implicito e concreto che viene trasmesso dalle famiglie e da altre reti sociali forti.

I conservatori populisti dovrebbero dunque battersi contro il potere crescente dell’élite tecnica e manageriale e difendere i privilegi dell’upper class. Dovremmo propugnare modifiche delle leggi fiscali e contrattuali allo scopo di favorire le piccole imprese e le grandi aziende private piuttosto che le corporation, le imprese nazionali piuttosto che le multinazionali, il capitale piuttosto che il debito, le banche locali e il credito cooperativo piuttosto che Wall Street. Dovremmo lottare per l’abolizione delle tasse di successione e di quelle sulle donazioni, e per l’esenzione delle aziende familiari dalle imposte sulle plusvalenze.

Dovremmo anche combatte contro la tendenza dell’élite di isolarsi dal punto di vista educativo. I college privati iperselettivi dovrebbero essere obbligati ad allentare le barriere all’ingresso e a concentrarsi sul servizio al loro territorio. Soprattutto gli insegnanti, gli studiosi, i critici, gli intellettuali, i preti e i pastori, gli artisti, i genitori dovrebbero assumersi nuovamente il compito di trasmettere ai giovani la tradizione dell’alta cultura, riconoscendo che i prodotti dell’anti-cultura e della cultura pop non possono costituire la base per una società sana e intelligente.

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